Recensioni / Leggere nel pensiero, pacificare il mondo: le mille utopie dei libri autopubblicati

Creatori di lingue universali. Scienziati e matematici dediti alla confutazione di Newton o alla quadratura del cerchio. Filosofi alfieri di una scuola di cui sono il primo maestro e l'unico discepolo. Lettori del pensiero. Fondatori di religioni. Riformatori sociali. Sessuologi di ampie vedute. Naturalisti in aspro dissidio con le tendenze egemoni della scienza moderna. Economisti eterodossi. Architetti inspiegabilmente bocciati al concorso per il monumento romano a Vittorio Emanuele (inspiegabilmente perché, visto il risultato, il loro progetto era buono quanto un altro). Politici senza seguaci ma non per questo meno risoluti nell'avanzare proposte per la pace mondiale. Questo e molto altro, tutto vero e tutto documentato, il lettore troverà in I mattoidi italiani, il nuovo libro di Paolo Albani in uscita per Quodlibet Compagnia Extra.
L'autore batte da tempo, con curiosità e pazienza inesauribili, i sentieri infiniti dell'eterodossia: lingue immaginarie, libri introvabili, scienze anomale. Quello con i mattoidi (un termine che deve la sua fortuna a Cesare Lombroso, e di cui si servì da par suo Carlo Dossi) era un appuntamento obbligato, sulla scia del maestro e ispiratore Queneau, che per decenni si è intrattenuto con le elucubrazioni dei fous littéraires. Non folli o pazzi: nessuno di loro, scrive Albani, ha varcato la soglia del manicomio.
Un mattoide è piuttosto, nelle parole di Queneau, un autore edito che professa dottrine in contrasto con quelle accettate nella società in cui vive, senza echeggiare teorie precedenti e senza produrre a sua volta alcuna eco: «un "folle letterario" non ha né maestri né discepoli». Libertà senza vincoli, fiero isolamento, padronanza assoluta di un pensiero che non risponde ad alcuna autorità. Condizione invidiabile, a dirla così. E a vedere la sovrana disinvoltura con cui i mattoidi di Albani spendono la loro miglior parte nel creare lingue, confutare metafisiche, risolvere una volta per tutte i problemi del sesso, della politica e della società, può capitare di pensarla in questo modo.
Albani ne sembra convinto. Lo sguardo che rivolge ai suoi personaggi non è sarcastico né compassionevole. Entra in dettaglio, cita con larghezza, riassume col massimo scrupolo possibile le argomentazioni più astruse. Negli anni Sessanta Umberto Eco pubblicò sull'«Espresso» uno scintillante saggio sull'editoria a pagamento («L'industria del genio italico»; Albani lo cita spesso) da cui, sotto l'apparente neutralità del referto sociologico, traspariva un misto di scherno e di compatimento per gli ingenui eccentrici che diventano preda di stampatori senza scrupoli. Qui non se ne ha traccia. L'operazione di Eco era nel segno dell'ironia volterriana: la stupidità umana è inesauribile, fortuna che noi ne siamo fuori. Presupponeva superiorità, e si concentrava non a caso, in conformità con lo spirito di quei tempi progressisti, sugli aspetti più grottescamente reazionari degli autori anatomizzati.
Albani fa il contrario. I mattoidi raccontati da lui, anche quando magari propendono per il fascismo, sono sempre in qualche modo «di sinistra», intrisi di un fourierismo utopistico che persegue l'armonia, la salvezza, la benevolenza universale. Reclusi nella loro bizzarria, ci tendono comunque le braccia, e non dipende che da noi ricambiare il loro affetto. Ci sono affini più di quanto piacerebbe di pensare, e non a caso trovano ospitalità in una collana che pubblica i libri di Gianni Celati, Ermanno Cavazzoni, Daniele Benati, Paolo Nori. Dagli anni Sessanta ci divide un'era, la razionalità illuministica ha abbassato di parecchio la cresta. Se ciò sia un bene o un male si discuterà in altra sede.
E tuttavia un interrogativo rimane. Chi li rispetta di più, chi li prende più sul serio i mattoidi? Queneau, che ha dietro di sé l'irresponsabile elogio della follia surrealista? Eco, che li contempla con l'orgogliosa sicurezza di chi si sente intronato sulla cattedra della retta ragione? O Albani, che ce li affratella in un afflato francescano di coglioneria universale da cui leggendolo ci sentiamo anche noi travolti? La risposta non è scontata. I mattoidi non sono contenti di venir considerati tali, e lanciano spesso invettive contro l'ostracismo cui li condannano l'opinione pubblica, la scienza ufficiale, i poteri costituiti. A nessuno piace non essere ascoltato. La comicità involontaria umilia chi la provoca. L'amore respinto si trasforma in odio.
Nascosto tra le pieghe soavi della lingua cordialmente partecipe di Albani, affiora un fiume nemmeno tanto carsico di dolore, invidia, orgoglio ferito, solitudine abietta che non fa né sorridere di complicità né ridere di dileggio. Quando Freud, leggendo le meravigliose Memorie di un malato di nervi del Presidente Schreber, scriveva a Jung che quello che a noi sembra il delirio del folle è in realtà il suo tentativo di guarire, di comunicare, di affrancarsi dalla segregazione spaventosa in cui si trova, aveva uno sguardo meno affettuoso, senza dubbio; ma forse più umano

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