E se la crisi del debito sovrano degli Stati, quella stessa che sta oggi
facendo traballare le già incerte fondamenta dell'Europa, non fosse
governabile né da Bruxelles né da Francoforte? O meglio: e se questa
crisi non fosse riconducibile in prima istanza a una concezione
dell’economia i cui dispositivi sono governabili dalla “tecnica”
economica? Ne siamo diventati consapevoli: il “debito pubblico” degli
Stati è strettamente intrecciato con il “debito provato”. Come se il
“paradigma economico” non dominasse solo la politica europea,
occidentale e globale, ma anche la vita dei singoli. È dalla
collocazione di tali questioni in un rizzonte più ampio, più complesso e
al contempo più originario che prende le mosse il libro di Elettra
Stimilli, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo.
Come suggerisce il sottotitolo del libro, Ascesi e capitalismo, la
disamina di Stimilli parte da uno dei luoghi più "classici"
dell’interrogazione delle origini del capitalismo: l'Etica protestante e
lo spirito del capitalismo di Max Weber la cui interpretazione più
diffusa sostiene che lo spinto del capitalismo si sia configurato sulla
scorta dell'etica protestante, quella calvinista in particolare, che
avrebbe richiesto il sacrificio e la rinuncia del soddisfacimento
immediato dei bisogni, differendo e dilazionando il godimento dei beni
in un futuro indeterminato - condizione, questa, per l’“accumulazione"
capitalistica. Ebbene, Stimilli corregge, se non proprio rovescia,
questa interpretazione, sostenendo che I'attualità dell'analisi
weberiana - da più parti contestata alla luce dell'affermazione e
dell'avanzata del capitalismo in culture altre come quelle orientali
consiste invece nelI'aver individuato nella messa a profitto del
carattere di "autofinalità" dell'agire umano il gesto originario del
dispositivo capitalista. Ciò che infatti distingue il vivente umano
dagli altri viventi è un agire che non è finalizzato al conseguimento di
scopi e bisogni determinati, ma ha in sé il proprio fine. La pratica
ascetica è, dunque, sì fondamentale all'interpretazione dello spirito
capitalistico, ma non in quanto caratterizzata dalla rinuncia, ma perché
l'autodisciplina che impone converte tale qualità propriamente umana in
una "mancanza": in un "debito". Un debito, tuttavia, impossibile da
estinguere; una colpa impossibile da perdonare. Attraverso un itinerario
teorico che tocca autori e correnti di pensiero in apparenza tra i più
diversi e disparati, si giunge a svelare che il capitale a essere in
origine accumulato è proprio il "capitale umano". Ecco che tale
disciplinamento della capacita umana di agire senza uno scopo
corrisponde a una forma di dipendenza liberamente assunta, in seguito
mascherata abilmente sotto le sembianze dell’“imprenditore di sé".
L’imprenditore di sé non fa della propria vita una fonte di ricchezza,
ma, al contrario, non fa che accrescere quel debito che deriva dalla sua
incapacità di trovare uno scopo alla propria attività. Un consumismo
improduttivo e fine a se stesso è quindi l'esito più coerente e logico
di questa illogica e irrazionale impresa. Tale "consumare per consumare"
- che rappresenta oggi più che mai il motore dell'economia
capitalistica – dimostra inequivocabilmente come non sia l'utile a
costituirne il principio. ma il suo contrario: quell’inutile che
accresce un debito. da quello degli Stati a quello dei singoli.
costitutivamente inestinguibile. Si potrebbe sostenere con Stimilli che
il segreto dell’economia capitalistica è tutt’altro che di natura
economica e tantomeno è appannaggio di tecnici, ma è custodito
nell’antropologia e nell'ontologia del vivente umano. E allora ciò che
l'economia capitalistica ha convertito in debito - aderendo fino
all’indistinzione con forme tradizionalmente religiose – altro non è che
la nostra ricchezza e la nostra potenzialità più proprie.