Recensioni / La diaspora indiana a Londra ‘70: Farrukh Dhondy

Dopo i tragici eventi dell'undici settembre da più parti ci si è chiesto come sia stata possibile, e quando e in che modo sia avvenuta in terra d'Europa, culla dei valori d'occidente, la trasfigurazione d'una filosofia religiosa come l'lslam in una ideologia fondamentalista. Senza volerci addentrare in tematiche che esigerebbero un palcoscenico più vasto (e indubbiamente ben altro mattatore), ma senza voler delegare la risposta all'esile tesi d'una importazione del fenomeno da altre realtà, potremmo considerare quale momento illuminante di questa recrudescenza proprio il gennaio '89; allorché, sulla piazza del municipio di Bradford, città industriale nel nord dell'lnghilterra, migliaia di musulmani bruciarono i Versetti satanici di Rushdie. Uccidere un buon libro – è stato scritto – è forse più che uccidere un uomo, perché cosi si uccide un'immortalità prima ancora che una vita: e allora, a voler indagare di chi siano le responsabilità politiche di quel radicalismo ingrassato nei vicoli della società postfordista dovremmo partire proprio dall'alveo della nostra «storia». E a questa analisi, retrospettivamente, ci conduce una serie di racconti edita in Italia da Quodlibet (Vieni alla Mecca, trad. di Marina Manfredi, pp. 137, 12,00), datata fine anni settanta e opera d'un ironico e acuto scrittore della «diaspora», Farrukh Dhondy. Come Mistry e Bapsi Sidhwa, anche Dhondy appartiene alla minoranza parsi, e questo proficuo distacco (culturale, religioso) ha reso più cruda e penetrante la sua satira sociale. Arrivò in Inghilterra a vent'anni, per proseguire i suoi studi universitari, nel momento in cui era in corso una delle più massicce emigrazioni dall’India e dal Pakistan: per la maggior parte erano contadini che sfuggivano alla povertà per trovarne un'altra, lo struttamento nell'industria dell'abbigliamento all'estremità orientale di Londra o nelle fabbriche di lana e cotone dello Yorkshire e del Lancashire. È questo universo costituito da agglomerati urbani in rovina, da scuole fatiscenti e case occupate, da moschee-rifugio, a far da sfondo alle sue storie. Un'atmosfera che l'autore ha saputo ritrarre con estremo realismo, e non a caso l'East End dei suoi racconti è un quartiere dove risuonano i ticchettii delle macchine da cucire, dove i profumi del kebab e l'odore di fritto si mischiano agli aromi dei piccoli negozi di spezie e lenticchie, dove i giovani s'aggirano per i caffè imitando i divi del cinema. Eppure non troveremo qui segni di nostalgica elegiaca: le sue storie parlano di violenze razziali (perpetrate dai «bianchi» del Fronte nazionale con l'avallo della polizia), dell'umiliazione nata dall'indigenza e dalla mancanza di lavoro, della perdita dei sogni già nell'età dell'infanzia. Raccontano di una ignoranza assoluta (linguistica inprimis) nutrita da un'istituzione scolastica che è sinonimo di ghettizzazione e crudeltà; ma anche della reazione virulenta dei giovani bengalesi e pakistani. Tutte vittime della miope politica thacheriana, oggi assurta a mito dall'elite dominate: e i cui germi – sembra ammonire Dhondy – sono come quei famosi denti di drago, che, seminati qua e là nel tempo, hanno fatto oggi nascere uomini armati.