Recensioni / Se il filosofo diventa uno schiavo volontario

Occupare uno spazio, sia esso mentale o fisico, non è di questo che in fin dei conti si interessarono - pur nelle sostanziali differenze - Albert Speer e Martin Heidegger? La stessa densità e compattezza che noi troviamo nelle architetture dell' uno si notano nella filosofia dell' altro. Emmanuel Levinas ne ebbe consapevolezza quando avanzò la tesi che quella del filosofo era una "filosofia dell'hitlerismo" (il libretto è stato ristampato da Quodlibet). Un pensiero, verrebbe da commentare, senza intervalli né interruzioni. Che fa appello a una monumentalità brutale ed eversiva. A una durata egizia. Come le piramidi. Le stesse immaginate da Hitler, per il quale Speer avrebbe dovuto «fissare nella pesantezza della pietra la folgorazione vertiginosa e ipnotica del leader carismatico», ci rammenta Miguel Abensour in un sagace testo su "architetture e totalitarismi" (edito da Jaca Book). Lo stesso autore appone un lungo saggio al testo di Levinas, ricordando l' importanza che un'espressione come essere inchiodati (coniata da Levinas) riveste in Heidegger. Si è inchiodati sia nel senso di "esser gettati" (dasein) sia in quello più emotivamente compromesso di esser preda di qualcun' altro: un leader, un dittatore, un capo carismatico. Ma come è possibile accettare o aderire alla servitù volontaria? E perché si subisce il fascino della sottomissione? Già La Boétie, e poi Spinoza, avevano posto quest' ossimoro al centro di una riflessione che è giunta fino ai giorni nostri. E tuttavia è ancora da scrivere una storia dell' incatenamento. Così prossima a volte all' incantamento: nella forma dello stupore, dell' ipnosi, della seduzione. Di quella libertà che sembra più immobilizzarci che renderci padroni delle nostre azioni.