I capannoni di Marghera, come i Palazzi storici di Palermo. Le ex aree
industriali di Genova, come il Metropoliz di via Prenestina, a Roma. La
Torre Galfa di Milano come il “Dispensario” di via Miglietta a Lecce. E
poi Napoli e Torino, Cagliari e Bari. L’Italia è anche il Paese degli
spazi abbandonati. Lasciati morire. Con noncuranza e superficialità.
Osservati con sguardo frettoloso. In attesa del loro recupero.
Nella galassia di contributi sull’argomento colpisce per la lettura non
consueta, Nuove terre. Architetture dello scarto (Quodlibet 2011,
pp. 204, euro 20) il libro di Sara Marini, presentato nel giugno
passato al Festival Internazionale di Architettura di Perugia. Un libro
nel quale si sottolinea la necessità di riacquistare alla comunità il
Bene per un certo tempo alienato. Ma che soprattutto invita, prima di
trovare le soluzioni per reintegrarli alla città, ad “imparare a
guardarli. Rendersi conto che ci sono, e scoprire come sono stati
riempiti … Da lì deve partire la nostra riflessione per migliorarli”.
Un elemento necessario. L’osservazione ora. Nel momento del suo degrado.
Da qui ripartire per ricucire la struttura, il complesso al suo
intorno.
La nostra spina nel fianco sono senza dubbio le periferie. Ma anche le
aree centrali non sono immuni da problemi da abbandono e quindi non
utilizzo. Il problema italiano sono, è vero, le tante Scampia,
disseminate qua e là. Realtà nelle quali l’abusivismo ha spesso
disegnato strade e piazze. Non soltanto edifici. In questi agglomerati
che nulla hanno dei segni distintivi della civitas l’impegno di
amministratori e architetti dovrebbe moltiplicarsi. Attraverso
riqualificazioni imperniate su idee semplici ma efficaci. Tese a
ristabilire un equilibrio perduto. Senza dimenticare le zone
industriali. Il portato dello sviluppo aggressivo che si è avuto dal
1950 al 1980. Cubature enormi, un tempo al servizio della crescita
industriale del Paese. Da tempo, ingombranti scheletri senza vita, sui
quali sarebbero necessari grandi investimenti.
Ma gli “scarti” sono anche nel cuore delle città. All’interno di centri
storici nei quali non di rado sono neppure tanto lontane, straordinarie
bellezze ed indegne brutture. E’ qui che l’opera di riciclo urbano si fa
più delicata. L’intervento più soggetto a innumerevoli varianti. In
questi ambiti la “ricucitura” deve realizzarsi soltanto dopo “aver
imparato ad osservare”. Concretezze ed utopia divengono, entrambe,
essenziali per ri-costruire i “vecchi” spazi.
L’Italia non è il Venezuela. Roma, come Milano, come Napoli e come
tantissime altre città italiane non sono la Caracas della Torre de
David. Il grattacielo iniziato nel 1994 e rimasto incompiuto. Completato
dagli occupanti. Simbolo, per certi versi, di un’invasione creativa.
Siamo lontani in queste nostre città, finanche nelle periferie, dalle
favelas di San Paolo e dagli slum di Tijuana. Ma è più che evidente che
molti dei nostri centri urbani appaiono inadeguati, inefficienti e
inquinati. Le zone d’ombra, gli “scarti”, che in maniera differente li
contraddistinguono, sono realtà. Da accettare. Sui quali intervenire.
Capendo che il nuovo, il “segno distintivo”, vera ossessione per tanti
progettisti, si può realizzare dando un’altra vita al “vecchio”. Perché
l’architettura può svolgere pienamente il suo ruolo senza essere
dirompente. Limitandosi a riorganizzare le singole particelle.
Nella società che muta rapidamente, dismettendo i vecchi attori e
facendone emergere di nuovi, le città saranno sempre più un parametro a
cui guardare. Una bussola per orientarsi. Per Tutti.