Dopo quella «a caldo» di André Bazin, la riflessione estetica di Gilles
Deleuze è ancora oggi un riferimento imprescindibile per ogni
discussione filosofica sul cinema della modernità e sui suoi autori, fra
tutti l’Orson Welles di Citizen Kane e F for Fake e l’Alain Resnais
dell’Année dernière à Marienbad. Con L’immagine-movimento e
L’immagine-tempo, pubblicati rispettivamente nel 1983 e nel 1985, il
fondamentale passaggio da un cinema classico, imperniato su procedimenti
volti a mascherare il linguaggio, a quello moderno, che impugna la
macchina da presa come una stilografica e ne fa un feticcio, viene
ripercorso come inevitabile percorso ontologico della settima arte. Il
cinema diventa con Deleuze un’arte del tempo: non più, o meglio non
solo, indagata negli eventuali debiti contratti da altri linguaggi
figurativi o per le peculiarità espressive dei suoi mezzi. Con Deleuze
il cinema si proietta su Bergson, Freud e Nietzsche, senza perdere la
freschezza del rapporto diretto coi testi filmici.
Proprio in virtù di questo consistente scarto, i due volumi conservano a
distanza di quasi trent’anni l’impatto dirompente che ebbero alla loro
uscita; e proprio per questo sembrerebbero vanificare la necessità di
ogni nuova rilettura. L’analisi di Daniela Angelucci ha però il pregio
di valorizzare, dell’opera di Deleuze, la «coesione inaspettata in un
pensiero aperto verso molteplici direzioni, dovuta proprio alla
circolazione continua dei concetti che, rimandando l’uno all’altro,
risultano invariabilmente connessi tra loro». Ma è un quadro questo che
emerge a posteriori, proprio grazie al lavoro di condensazione operato
dall’autrice sulla produzione deleuziana, suddivisa in nove capitoli che
ne ripercorrono i nuclei fondamentali – Movimento; Tempo; Virtuale;
Modernità; Falso; Vita; Ripetizione; Sadismo; Caso – mettendone in luce
la compattezza al di là e tra i testi originali, per loro stessa
vocazione eterocliti.
Il saggio prende le mosse dall’approdo teorico del dittico deleuziano,
in cui si formulava l’accostamento cinema-filosofia quali pratiche
creative affini, divergenti solo per la materia «linee melodiche
estranee le une alle altre che non smettono mai di interferire»; e
dall’idea che solo la filosofia possa «costituire i concetti del cinema
stesso», risultandone rigenerata in quanto poiesis e non solo come
attività riflessiva. Se nei primi capitoli Angelucci segue la
riflessione di Immagine movimento e Immagine tempo, una volta resi
familiari i nuclei fondamentali del pensiero di Deleuze, si fa via via
più libera nell’esposizione, aprendosi all’interpretazione di alcuni
autori in chiave psicologica: è il caso di Welles, al centro della
riflessione deleuziana per un cinema inteso come «potenza del falso», su
cui l’autrice traccia un breve excursus secondo una prospettiva
lasciata in secondo piano dal filosofo francese.
O recuperando suggestioni di altri studiosi: da quelle di Giorgio De
Vincenti su Bazin e la modernità, da cui si evidenzia come sia stata
spesso erronea o quantomeno forzata la dialettica Bazin-Deleuze, alla
fondamentale monografia di Badiou, di cui si convalida l’ipotesi che «la
via maestra per accedere all’idea deleuziana della verità è la sua
teoria del tempo».