Recensioni / Pierluigi Nicolin. La verità in architettura

Nei 17 capitoli de La verità in architettura Pierluigi Nicolin approfondisce temi che lo hanno accompagnato nel corso del suo lavoro di direttore della rivista “Lotus International”, dal 1978. Nicolin smentisce, nell’introduzione, il carattere definitivo del titolo, assumendo i testi come alfieri di un metodo d’invenzione, nell’accezione latina del termine. Il giudizio di chi scrive non è quello sterile e distaccato di un critico esterno ai fatti, ma quello di un architetto progettista che partecipa attivamente alle vicende del proprio tempo. In virtù di questa descrizione dall’interno, la verità in architettura non è un qualcosa che può essere stabilito con certezza. Ciò che interessa Nicolin è soprattutto la definizione di un percorso, un campo condiviso di temi utili alla precisazione di un piano di confronto. Le immagini a corollario degli scritti, che provengono da un suo viaggio nell’India del Sud, costituiscono il rimando a una realtà ulteriore, lontana dai ritmi dell’universo occidentale, che presenta in germe le medesime tematiche sviluppate all’interno dei capitoli. L’autore ci pone in sostanza di fronte a un confronto, spiazzandoci con brevi testi introduttivi, riferimenti distanti dai temi analizzati, che consentono riflessioni più ampie rispetto alle questioni trattate.

Il primo capitolo, La verità nascosta dell’architettura, indaga le radici culturali dell’architettura italiana, dimostrando la costante storica di un gioco di sovrapposizione tra struttura e rappresentazione. L’incipit dell’indagine è il concetto di sprezzatura, la volontà di celare lo sforzo necessario a realizzare l’opera per farne emergere l’arte. Tale aspetto costituisce uno dei temi chiave del libro che ricorre nei capitoli successivi, dove si entra nel vivo di questioni legate all’urbanistica, tra cui l’opposizione sprawl–città densa. Segue un approfondimento sul significato del museo nella contemporaneità, in cui l’idea di edificio contenitore è determinata, secondo l’autore, da una perdita di consistenza dal punto di vista tipologico e di significato rispetto alla città. Nicolin vede la declinazione di tale istituzione legata inequivocabilmente a un’immagine definibile come packaging, connessa più al mondo del design industriale che all’architettura. Il superamento dell’epoca moderna costituisce uno spunto di riflessione in questo senso e l’autore presenta l’argomento come ulteriore tema chiave nella lettura del libro. L’interpretazione dell’opera di alcuni architetti di riferimento del Novecento – tra cui Sigurd Lewerentz, Luis Barragán, Aldo Rossi, Álvaro Siza e Steven Holl – dimostra come l’anticipazione dell’immagine abbia di fatto consentito il superamento del modernismo, pur non garantendo nell’attualità lo scavalcamento di quell’impasse che affligge buona parte dell’architettura contemporanea. Se nei capitoli precedenti la critica è chiara, nel capitolo relativo alla biopolitica la tesi di una possibile derivazione delle nuove forme bio-tech di alcuni progetti di Jean Nouvel, Frank Gehry o Zaha Hadid dai dispositivi foucaultiani risulta meno convincente. Interessante invece la riflessione all’interno dello stesso capitolo sull’idea di neonaturalismo, fenomeno che secondo l’autore “cerca di dare un volto alla richiesta ecologica di sostenibilità attraverso l’apprendimento da una natura riflessa dall’immagine scientifica, oltre le simulazioni e i superficialismi biomorfi”. Il testo non dimentica di rivolgersi ai temi del recupero e della ricostruzione. L’esempio del piano per il Chiado di Lisbona, dopo le devastazioni causate da un rovinoso incendio, concentra l’attenzione sul progetto di Álvaro Siza, che costituisce un’impostazione di metodo rispetto all’idea di recupero. Significativa è la chiusura del capitolo, dove il quartiere è inteso non tanto come atto di ri-fondazione, ma secondo tre livelli di lettura di carattere temporale: “quello dei tempi lunghi dei tracciati, che appartengono alla struttura dell’insediamento; quello dei tempi medi dell’architettura urbana della Baixa di Eugenio Dos Santos, e per ultimo quello dei tempi brevi dell’architettura contemporanea, che esprime negli interstizi la sua condizione di sperimentalità”. Attenta e sensibile risulta la lettura del lavoro di Kazuyo Sejima, dove si coglie il dato essenziale di un’opera raffinata, “femminile”, di un’architettura pellicolare, trasparente, effimera. Le parole di Toyo Ito relative al lavoro di Kazuyo Sejima introducono il discorso di Nicolin che appoggia l’idea di “un edificio che è in sostanza l’equivalente del diagramma spaziale che si usa per descrivere in forma astratta le attività quotidiane che si presuppongono per l’edificio”. Il libro si chiude con la descrizione della visita al Cabanon di Le Corbusier, nel quale si introduce il lettore a una esperienza personale sull’architettura, con tutta la reverenza e la curiosità verso un luogo a tratti surreale, prototipo di architetture successive basate anch’esse sul Modulor.

In sintesi la struttura del testo, organizzata mediante una successione di capitoli autonomi, derivati in certi casi da scritti precedenti, rischia talvolta di generare un senso di straniamento nel lettore, che viene però trascinato sino alla radice dell’argomento. Una lettura che può essere intrapresa su più livelli, con finalità differenti, che va da questioni di carattere generale, come il superamento della Modernità, sino all’analisi di singole opere ritenute significative. La verità in architettura è in definitiva un testo consigliabile a tutti coloro che abbiano interesse a conoscere l’opinione di una voce fuori dal coro, testimone sia della contemporaneità che dei tempi da poco trascorsi, capace di leggere i fenomeni attuali secondo una prospettiva ampia, non solo legata al mondo dell’architettura ma intrisa di rimandi alla cultura filosofica e artistica.