Recensioni / Jacques-Alain Miller, Vita di Lacan

Ci sono personaggi, nella storia della cultura occidentale, immortali per elezione attribuibile a volontà divina; e ci sono quelli, invece, che sono tali per desiderio o condizione strettamente umani. Tra questi, più che tra i primi, si nominano coloro che hanno saputo investirsi del beneficio eterno con sapiente ingegno. Che l’immortalità, poi, sia di fasti paradisiaci o di condanna infera è fatto assolutamente secondario. Raccontare le vite di costoro assume i toni dell’obbligo per i sostenitori di entrambi i destini.
Recentemente, Jacques-Alain Miller ha voluto dare alle stampe un volumetto intitolato Vie de Lacan. Écrite à l’intention de l’opinion éclairée, pubblicato in Italia (a cura di Antonio Di Ciaccia; traduzione di Céline Menghi) per la collana Lacaniana dell’editore marchigiano Quodlibet col titolo Vita di Lacan. Scritta a beneficio dell’opinione pubblica illuminata.
Nonostante l’avvertimento («Preferire il suo pensiero, dimenticare la sua persona era quello che [Jacques Lacan] si augurava che facessimo, perlomeno era quello che diceva e io [J-A Miller] l’avevo preso in parola», p. 8), l’allievo preferito di Lacan ha deciso – a trent’anni dalla sua morte – di parlare dell’uomo dopo aver dedicato l’intera vita a divulgarne il pensiero attraverso l’edizione dei Seminari. A differenza di quanto faccia presumere il titolo, non si tratta di una biografia nel senso comunemente inteso. Ma possiamo ritenere eloquente il sottotitolo per risolvere la questione: è un testo per l’opinione – pubblica – illuminata.
Nicole Martina, recensendo la Vita, ha scritto: «Abbandoni ogni speranza chi, oltre a non risultare iscritto nei ranghi i dei suddetti illuminati, coltivi l’ingenuità di ricavare da questa breve testimonianza una parabola biografica i capace di colmare con qualche informazione sui trascorsi di Lacan, o sulla sua formazione, o sulla sua quotidianità, i collassi interpretativi indotti dalla sue lezione» («il manifesto» 25-02-2012).
Sto avvicinando Lacan durante gli studi universitari, ho cominciato ad apprezzarne le implicazioni critiche e teoriche applicabili al cinema e alla letteratura ma, per quanto mi riguarda, non sono (diffido dall’esserlo o non ne sono all’altezza) un illuminato – se assumiamo l’accezione sacrale, in fondo massonica, del termine – e dell’opinione pubblica non ho un gran rispetto (soprattutto quando la condivido). Però il libro l’ho apprezzato perché, in fondo, non mi aspettavo qualcosa di diverso. J-A Miller è un illuminato, anzi un unto, il discepolo prediletto; è la pietra su cui Lacan ha costruito la propria chiesa. Non rinuncia neppure a termini quali fede e credo. Non può esimersi dall’immaginare – forte il richiamo Smithers che sogna Mr Burns – «Lacan nelle vesti di Arpocrate, nudo come Eros, …» (p. 61). Come gli si potrebbe chiedere di rappresentarlo in altro modo?
Jacques Lacan non era interessato alla giustizia, né a una morale di qualche tipo. Ha più volte spiegato di non essere progressista. Si racconta che, ai giovani del ’68 che lo invitavano alla rivoluzione, rispose «La révolution c’est moi» (rifiuto che gli costa ancora oggi pesanti critiche). Miller racconta il suo odio per gli stop, la sua testardaggine e il suo carattere ostinato: non prova a dipingerne un ritratto luminoso o narrarne una vita edificante; conferma il suo servilismo amorevole («che appartiene al biografo in quanto tale», p. 21) e, allo stesso tempo, prova a raccontare il vero:

Del resto, le biografie che si leggono, si leggono come dei romanzi, perché sono necessariamente dei romanzi; le migliori lo ammettono; le altre mimano la scienza  (p.39)

Per odiare Lacan si possono leggere i carteggi di Marie Bonaparte (v. BERTIN, Célia, La dernière Bonaparte, Librairìe Académique Perrin, Paris 1982) e tutte le vicende legate alla Società Psicanalitica (etc.). Per amarlo è sufficiente leggerne gli Scritti, affrontarne i Seminari.