Recensioni / In tempi di ascesi

Elettra Stimilli rilegge Max Weber. E lo fa, insolitamente, passando attraverso un Bataille molto ortodosso. Arriva a concluderne che l’accumulazione intensiva capitalistica esplica un tratto umano generico, l’aristotelica attiva prâxis più che la fabbrile poíesis. Ma andiamo con ordine. Per Bataille Weber è il teorico di un passaggio dal cattolicesimo delle opere efficaci al calvinismo della grazia incondizionata. La validità sovrannaturale della svolta “gratuita” e l’ascesi intramondana del capitalista tagliano di netto con la strumentalità del rapporto mezzi-fini e abbandonano l’economia a una logica utilitaria pura, dopo che la glorificazione di Dio viene fatta passare attraverso la negazione di ogni cattolica gloria esteriore, la santificazione di Dio attraverso la desacralizzazione della vita umana e la consacrazione dell’uomo ad attività senza gloria, economicamente utili appunto. Alla dispendiosa mediazione cattolica subentra il reinvestimento del profitto in ulteriori iniziative, al consumo opulento e improduttivo succede l’accumulazione per l’accumulazione.
L’autofinalità del profitto scisso dal godimento, più che manifestare un impulso acquisitivo, viene portata a testimonianza della capacità dell’uomo di rapportarsi a se stesso senza uno scopo predeterminato –senza tacerne il risvolto di impresa autodistruttiva. Se in un primo tempo Bataille aveva visto nella secolarizzazione weberiana il momento in cui la ragione strumentale e utilitaria si autonomizza da qualsiasi forma di trascendenza munifica, in un’ulteriore riflessione la produzione sganciata dal consumo reificante e dal soddisfacimento (pur dilazionato) dei bisogni si fa in-utile, riattingendo la sfera del sacro, che a volte si confonde con quella della vita animale –entrambe e diversamente vertenti su un non-sapere. La distruzione improduttiva –bizzarra parafrasi, in Teoria della religione, della distruzione creatrice schumpeteriana ma del pari effetto imprevisto dell’ipertrofica produzione di mezzi di produzione– finisce per ritrovare distintamente la notte dell’animale intimo al mondo. Quando la produzione non sa più che farsene dei propri prodotti, la sovranità della servitù (l’ordine delle cose) si capovolge in sovrana coscienza di sé. Il mondo che si apre al di là dell’utile calcolabile è, come per Kojève, quello omogeneo, striato da gioco e ritualità, che sopravvive alla fine della storia, la post-histoire.
 L’ascesi intramondana rimanda, per Stimilli, alla costituzione autotelica e autoreferenziale dell’uomo, al fatto cioè che egli sorpassa ogni fine limitato, ogni godimento concreto assorbito nella ripetizione compulsiva, decodificando e ristrutturando il desiderio. Eremita e moderno capitalista convergono (molte pagine sono dedicate all’ascetismo cristiano), ma in ciò conviene anche il flessibile precario che investe nella produzione la sua stessa vita: l’uomo quale essere in debito è una forma di capitale, ognuno è imprenditore di sé. Il debito e la colpa (in tedesco un unico termine, Schuld) bollano come mancanza da colmare quell’eccesso costitutivo dell’essere umano che contrassegna la prâxis rispetto alla poíesis. La logica del debito, che sta alla base dell’accumulazione capitalistica e della genesi della morale, Marx e Nietzsche, esprime e comprime quell’eccedenza come deficit.
Per cogliere però la logica economica del debito non ci si può limitare a una deduzione dalla natura umana o a una genealogia della morale (di cui invece è importante osservare la complementarità), occorre bensì comprendere il salto indotto nel capitalismo dalla finanziarizzazione. Osserva Christian Marazzi (sul Manifesto del 3.12.2011) che «il neo-liberalismo si invera nella sua essenza di fabbrica dell'uomo indebitato. L'imprenditore di se stesso produce il suo debito che ora lo disciplina attraverso un dispositivo di colpevolizzazione. Del resto, qui c'è anche un inveramento, o uno svelamento, dell'essenza del denaro: il denaro è debito, la finanziarizzazione del capitale ci ha trasformati tutti in soggetti debitori, e il valore viene prodotto in negativo, da una macchina depressiva». Il capitalismo finanziario globalizza l'imperialismo attraverso la trappola dell'indebitamento pubblico e privato, per realizzare il plusvalore estratto dal lavoro vivo. Il debito, nel nuovo schema imperiale, è la faccia monetaria del plusvalore, dello sfruttamento universale della forza-lavoro. Con il che si diffonde un nuovo dibattito che chiama in causa  il diritto di insolvenza e alimenta pratiche correlative.
Aggiungiamo che nella dimensione del conflitto strategico fra attori finanziari è in gioco prima il potere e solo in seconda battuta la razionalità economica, l’efficienza nel conseguire profitto. Lo spirito della guerra permea sino in fondo l’ordinaria concorrenza e le “irrazionali” manovre speculative sono espedienti assai razionali per estorcere plusvalore dal 99% e ripartirlo all’interno dell’1% (magari le proporzioni saranno 95 e 5). La versatilità della natura umana è impiegata per sfruttare la flessibilità della forza-lavoro e per trasferire l’astratto del valore dalla fabbrica alla sfera finanziaria, mezzo dei mezzi e dunque fine dei fini. Il comune virtuale si fa crowdsourcing, l’onnilateralità del bios supporta lo sfruttamento bio-politico, la carenza istintuale diventa debito, la neotenia prolunga la precarietà generazionale. Tutte le precedenti figure soggettive dell’epica capitalista – fossero i creativi o i manager di se stessi, come ha osservato M. Lazzarato – precipitano nell’uomo debitore. Tutti diventano colpevoli, come un tempo lo erano i soli poveri. A partire da questi processi e dalle resistenze ad essi ridefiniamo la natura umana, non viceversa. Come, a suo tempo, l’opus indiscretae imaginis era un artefatto di Pico e della cultura umanistico-rinascimentale, non un dato originario appena scoperto: un artefatto, beninteso, poggiante su possibilità intrinseche di uno stadio evolutivo dell’uomo. Un’entità bifronte, che discrimina e gerarchizza all’interno della moltitudine, che disciplina e sovverte, secondo gli usi.
A giusto titolo pertanto la Stimilli suggerisce di studiare come invertire, mediante contro-condotte (in luogo del termine foucaultiano l’autrice preferisce parlare di «riattivazione di modalità differenti»), il moto che porta dalla finalità senza scopo a un fine in sé astratto, che neutralizza le pur inerenti potenzialità. Spingiamo più avanti il ragionamento. La decostruzione di ogni ideologia sacrificale della razionalità ci appare, in tal caso, la prima mossa per spezzare la logica asservente del debito sui due versanti in cui si sdoppia: l’obbligazione costituente la sovranità (obbedienza alla legge come fondamento di socialità) e l’impegno morale verso un trascendente rivelato o categorico. L’oggettività del governo tecnico (che in Italia secolarizza, con avvertibili tracce confessionali, la potenza divina, di cui Berlusconi offriva una parodia bionica) scherma l’irresistibile comando della finanza globale adattandola al territorio e svuotando non rimpiante sovranità nazionale e modalità di rappresentanza liberale.
Bataille opponeva l’uomo sovrano e dissipatore all’uomo asservito del lavoro e del debito –un’inversione nietzschiana della dialettica Signore-Servo desunta dalla Fenomenologia hegeliana versione Kojève. Beninteso, il concetto bataillano di “sovrano” non coincide affatto con la corrente nozione del diritto pubblico internazionale, come è messo in chiaro in apertura del suo libro postumo e incompiuto La sovranità, piuttosto le si contrappone.  L’ideologia del debito (in simmetria “servile” alla dépense sovrana) accede oggi a un uso pratico, quando la governance post-sovrana si costruisce intorno alla gestione del debito pubblico, manipolandolo per instaurare un regime di sfruttamento biopolitico neoliberista, la Big Society. Ciò si articola sui due piani complementari dello smantellamento delle politiche sociali keynesiane e della compressione dei salari e dei trasferimenti, per l’aspetto economico, della colpevolizzazione penitenziale dei sudditi-soggetti ai sacrifici, per quello ideologico. Si attenua l’obbligo di obbedienza integrale al sovrano (la  teologia monoteista secolarizzata fra Hobbes e Schmitt ),  ma l’effettualità del debito e l’auspicata austerità consensuale ne ripropongono la radice materiale, da lungo obliata nella sublimazione giuridico-costituzionale. Si doveva obbedienza al sovrano così come si doveva restituire il debito al creditore, sotto minaccia di sanzioni corporali. Oggi si è vincolati di nuovo direttamente al debito (privato con le banche e sotto forma di quota del debito nazionale), dal momento che il potere finanziario e la governance che lo esprime hanno sostituito la sovranità nazionale e (in via tendenziale) il suo monopolio della violenza e della produzione giuridica.
Si è parlato in alcuni casi di dittatura commissaria (Balibar), ma forse è ancor più pregnante osservare che tali interventi non hanno più neppure un carattere di sospensione del diritto, configurano anzi una cascata di “eccezioni” più che uno “stato d’eccezione” nel senso schmittiano .  Il governo tecnico surroga sistemicamente con l’oggettività del mercato l’universalità del diritto, comincia ad aggiustare la forma costituzionale alla costituzione materiale neoliberista e al comando sovranazionale. Il caso greco è drammaticamente esemplare nella violazione delle abitudini di formale non interferenza internazionale e di ossequio alle espressioni della volontà popolare. A questo punto le contro-condotte prima ipotizzate per invertire l’impazzimento dell’autofinalità inerente alla prâxis umana entrano in risonanza con i dilemmi posti dalla crisi e dagli effetti recessivi e spoliatori dell’austerità raccomandata come sua cura. La negoziazione dei rapporti di forza e degli stessi assetti costituzionali si fa allora problema tanto teorico quanto politico.

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