Recensioni / L'ecologista del linguaggio

«Verschollen und vergessen», disperso e dimenticato: così Cesare Cases, nelle sue Confessioni di un ottuagenario (Donzelli), si rammaricava alla fine degli anni Novanta dell’oblio di Karl Kraus, richiamandosi alla collana dell’editore Steiner di Wiesbaden che nel 1952 ne aveva ospitato un’antologia degli scritti. Da sempre un classico nell’Austria che lo vide implacabile fustigatore delle ipocrisie tardo-asburgiche, Kraus era stato infatti trascurato dalla critica nostrana negli ultimi decenni del XX secolo nonostante la riscoperta che se n’era fatta negli anni Sessanta. Facevano eccezione, ovviamente, le edizioni e selezioni più disparate degli aforismi, che ne costellano tuttora la fortuna postuma, ma spesso al prezzo di una volgarizzazione adultera, che sacrifica il peso che Kraus dava a ogni singola parola nei suoi rapporti paradigmatici e storici. Non che da noi sia mancata l’attenzione di una certa editoria, ma quanti possono annoverare Gli ultimi giorni dell’umanità (Adelphi) fra le proprie letture recenti o ricorrenti? E anche la riedizione, nell’anno appena concluso, della Terza notte di Valpurga (Editori riuniti) – «formidabile attacco al regime di Hitler», come scrive la curatrice Paola Sorge, sferrato con le stesse parole della stampa omologata del Reich – è un tentativo di rilanciare un autore apparentemente inattuale innanzitutto per la sua poetica, se è vero quel che dichiarò qualche anno fa Luca Ronconi, di cui resta celebre la messinscena del capolavoro krausiano nel 1991 al Lingotto di Torino, e cioè che temi e procedimenti espressivi come quelli di Kraus oggi suscitano meno interesse di un tempo. Di questi temi e procedimenti, tuttavia, rende ora conto, riproponendone l’attualità e la necessità, una valida monografia di Irene Fantappiè, Karl Kraus e Shakespeare. Recitare, citare, tradurre (Quodlibet, «Studio», pp. 270, € 24,00), che si concentra per di più sull’opera più dimenticata di Kraus, quel Theater der Dichtung, “teatro della poesia”, al quale egli lavorò più che ad ogni altra cosa nell’ultima parte della sua vita e che l’autrice presenta come «vera e propria summa dei motivi e della scrittura di Karl Kraus».

Tutto inizia nel maggio 1916, in pieno conflitto mondiale, quando Kraus sorprende il pubblico sempre numeroso delle sue letture sceniche nel Kleiner Konzerthaussaal di Vienna declamando, invece di una nuova invettiva anti-interventista, brani scelti da Le allegre comari di Windsor e commemorando così il trecentesimo anniversario dalla morte del Bardo dell’Avon. Sembra l’incomprensibile ripiego su una leggerezza fuori luogo, ma è un gesto profondamente politico: di fronte all’apocalisse in corso, al crollo definitivo e tragico di un’epoca e di un sistema, Kraus reagisce avviando un progetto di «rielaborazione del proprio passato culturale» che lo porterà, attraverso decenni di letture pubbliche e pubblicazioni sulla Fackel – la rivista che egli diresse e curò fra il 1899 e il 1936 fino a esserne pressoché l’unico redattore –, a raccogliere in volume l’esito “durevole” di quell’impresa. Irene Fantappiè segue il progetto nel suo farsi analizzandolo nei suoi tre aspetti complementari – recitazione, citazione e traduzione –, che Kraus accoglie ed ibrida nel proprio «genio mimico», come lo battezzò Walter Benjamin. L’operato krausiano è contraddistinto dapprima da una fase destruens, volta soprattutto a dimostrare «il fallimento dei poteri ufficiali»: è la fase in cui Kraus, constatata l’impossibilità della satira “tradizionale”, della semplice «trascrizione» autoderisoria della parola altrui nel devastato mondo post-bellico, mette a punto un metodo che è «creazione di citazioni», in cui citare è “fago-citare” e citare in giudizio, spostamento, appropriazione e montaggio critico di lacerti testuali che, quando sono brani giornalistici, soccombono alla stigmatizzazione, all’accusa feroce; quando si tratta di traduzioni altrui – ed è la scelta che prevale nella seconda fase, quella construens –, il citare di Kraus diventa ri-citare e «recitazione scritta», movimento spaziale e traslazione temporale, sforzo di presentificazione di un passato letterario in grado di contrapporsi al presente e alla sua corruzione, soprattutto linguistica. In tal modo gli obiettivi polemici diventano anche le traduzioni dei contemporanei – come quella che Stefan George fece dei sonetti shakespeariani o la Louise Labé di Rilke ­– e ciò che esse rispecchiano, nell’ottica Kraus nemico dell’ornamento e dell’acribia filologica, del presente culturale e storico. D’altra parte il compito che Kraus si poneva era in gran parte utopistico, poiché l’obiettivo, in base alla sua concezione della lingua, era quello di ripristinare l’originaria unità di parola e pensiero del testo originale, e questo, nel caso di Shakespeare, senza neppure sapere l’inglese, ma avvalendosi unicamente di traduzioni tedesche, su tutte quella romantica dei fratelli Schlegel e Dorothea Tieck (figlia dello scrittore Ludwig). Ne risultano testi a paternità multipla e dalle pretese trans-storiche in virtù del loro stesso carattere frammentario e isolato, assemblati da quello che Fantappiè definisce da ultimo un moderno rewriter, benché il suo metodo fosse più affine al quodlibet o al centone che alle sperimentazioni testuali delle avanguardie. E se è pur vero che questa spinta utopica e sovratemporale permette di avvicinare l’impresa di Kraus, come suggerisce infine l’autrice, alla riscrittura del Don Chisciotte per mano di Pierre Menard nel celebre racconto di Borges, d’altra parte occorrerà ricordare quanto bisogno vi sia oggi, di fronte alla corruzione e alla decadenza del linguaggio e dei costumi pubblici, di uno spirito krausiano, conservatore e rivoluzionario ad un tempo, capace di mettere alla berlina, al di sopra delle gogne facili e indistinte, pseudo-democratiche agevolate dalla rete, il potere politico e la cattiva iperlalia del giornalismo e degli stessi nuovi media.