Recensioni / L'ordine complicato

Di che parla questo libro? E come si tengono insieme le varie parti scritte e disegnate di cui è composto? Sostiene una tesi? A chi è rivolto? Sono domande lecite, in genere, non solo perché rientrano tra quelle implicite con cui un qualsiasi lettore dà significato alle proprie attese, ma anche perché sono le doverose premesse di chi decide di parlare di un libro. lecite e anche banali, in fondo. per questa volta, invece, rischiano di diventare uno sbarramento sia nell’accesso alla lettura sia alle possibilità di esposizione. facciamone a meno, allora.
Yona Friedman presenta queste pagine chiamandole congetture, note sparse, visioni personali, modi privati di immaginare il mondo, riflessioni (in certi casi contraddittorie), esercizi di scienza fantastica, tentativi di armonizzazione. ma è questa frase che ne dà la definizione più precisa: «non è da escludere che l’immagine che ho cercato di costruire sia erronea, ma a me sembra che essa renda più chiara la relazione tra formule matematiche e immaginazione scientifica» (p. 70). Ecco, dunque, che secondo questa affermazione i vari argomenti trattati nella raccolta possono trovare un’unica chiave di lettura se li considerassimo, come sembra suggerire l’autore stesso, un esercizio sul problema del rappresentare. l’ipotesi dello spazio granulare, elaborata nel capitolo secondo, o la deduzione del mondo monodimensionale, fatta nel primo, e anche l’idea dell’ordine complicato, variamente riproposta nelle altre parti, così come l’euresi del mondo erratico e la dialettica tra analitico e olistico, altro non sarebbero quasi che dei pretesti, assai più utili delle verità stesse che rivelano, per riflettere sui sistemi di rappresentazione. Il fascino di questa riflessione sta nel fatto che è ostinatamente elementare: non intendo semplice, quanto piuttosto ridotta a pochissimi, basilari elementi che esemplificano le operazioni che gli uomini fanno abitualmente, come contare, leggere, distinguere parti e forme; tutte cose che accadono guardando e pensando, insomma mettendoci un po’ d’esperienza. la volontà di comunicare in modo diretto, senza la discussione di mediazioni culturali (che certo ci saranno ma non sono esplicite e quindi non producono discorso o argomentazione), si avvale anche di un sistema grafico: spesso friedman, anche in altre opere, disegna le cose che immagina o ipotizza, altre volte scrive delle vere storie a fumetti, che sono sempre molto piacevoli a leggersi e a vedersi.
Si possono ritenere che questi disegni siano un tentativo di rendere più chiara e accattivante l’argomentazione, ma il loro modo fanciullesco di proporsi comunicano anche una gioia istintiva, perché ingaggiano una piccola lotta tra ingenuità e consapevolezza.
Friedman stesso non sa dire quanto il suo modo di intendere la forma fisica del mondo e la possibilità di rappresentare l’esperienza sia anche solo minimamente fondata. C’è di buono che rifiuta ogni spiegazione metafisica e non pretende che il suo modo di vedere valga per tutti. Più che altro cerca di dare un senso e una comunicabilità al suo modo di percepire la realtà visibile.
Lo spazio secondo Friedman non è continuo ma granulare: in fondo non è neppure compatto perché è penetrabile. i granuli sono separati da un non spazio o vuoto, e la loro caratteristica è quella di essere immobili. per questo non sono percepibili. L’occhio, infatti, vede solo ciò che è movimento, al punto che se l’immagine è ferma non può non metterla in movimento come se le sue parti scorressero su un nastro, cioè in sequenza. l’uomo vede solo parti, individualità, mai tutto l’insieme. La sua vista è analitica. Quindi percorre lo spazio per poterlo percepire. Non percepisce l’amalgama discontinuo che è la materia spaziale ma solo la sequenza o il processo che gli permette di individuare porzioni dello spazio: oggetti o eventi che siano. per questo, lo spazio andrebbe misurato sempre (e ciò è possibile) come intervallo di tempo rispetto a una velocità costante: non 1 km, ma 60 secondi a velocità x. Per questo ciò che conta di un oggetto non è il suo stato finale ma il modo con cui si è prodotto, cioè il percorso.
Questo è, in una sintesi estrema e forse parziale, l’argomentare di Friedman.
Che abbia a che fare con la costruzione di un’immagine è evidente: l’autore attribuisce la sostanza del nostro sapere alla visione, che non è capace di acquisire più informazioni o stimoli spaziali contemporaneamente, cioè di percepire una totalità in modo immediato, ma solo di scansionare lo spazio, cioè prolungando la percezione nel tempo. La vista, mi sembra di capire, funzionerebbe come il linguaggio, cioè con un ordine sequenziale. Il linguaggio sarebbe quindi una riduzione a un codice per comunicare con più precisione la sequenza che corrisponde all’esperienza visuale che abbiamo fatto del mondo. Una situazione molto complessa necessita di una sequenza molto lunga, mentre per una semplice ne basta una corta. noi potremmo ridurre l’immagine alla traccia di un dvd, spiega Friedman.
Ciò comporta una certa libertà o varietà di processi sequenziali: non ci sono sequenze più reali di altre ma solo diversi ordini complicati, con un’evidente opzione per un margine ampio di relativismo entro il quale è possibile pensare la coesistenza di esperienze e di stili diversi senza contraddizione.
Qualche indicazione interessante arriva anche sull’uso pratico che, nella sua immaginazione di architetto, Friedman fa di questa teoria della materia spaziale. la granulosità (ovvero anche la discontinuità e la porosità fisica) e la fissità (dei granuli spaziali) gli permette di immaginare il mondo come una sorta di struttura sulla quale gli eventi e gli oggetti passano, come le ombre del cinema si potrebbe anche pensare. l’universo diventa così una specie di schermo invisibile sul quale la realtà scorre secondo un ordine variabile e indeterminabile. per questo Friedman parla di spazio erratico, cioè qualcosa di cui non si può prevedere gran che o forse addirittura nulla, in quanto ogni esperienza avviene nel presente dell’ordine temporale, cioè della sequenza, in cui il fenomeno viene percepito (fenomeno, a dire il vero, non è termine di Friedman ma qui sembra calzante).
Per godersi queste riflessioni credo che si debba accettare di vagare e vagheggiare un po’ tra le pagine: il che rispetto alla teoria dello spazio granulare non sarebbe neppure sbagliato. del resto possiamo anche considerare l’insieme delle parti del libro come un kit di montaggio, che permette a ciascuno la sua via o il suo processo di produzione dell’immagine del libro.
Personalmente, penso anche che in questo senso il libro offra anche una narrazione e come tale vada letto: a partire da un’ipotesi, senza troppa preoccupazione di dimostrare alcunché o di trovare qualcosa di preciso, Friedman si diverte a esplorare le eventuali conseguenze di quell’ipotesi, che potremmo anche considerare, appunto, come espansioni o sviluppi narrativi, entro i quali c’è anche un certo margine di interattività.
Ma al di là del gioco, che in modo neppure tanto implicito questo tipo di scrittura intavola con la lettura, la riflessione di Friedman si allaccia in maniera evidente (quanto ostinatamente passata sotto silenzio) con una consuetudine ormai antica e diremmo anche tradizionale di pensare il rapporto tra immagine e percezione visuale. e tanto per fare solo pochi nomi, nei diversi ambiti della riflessione sulle arti, si potrebbe tornare indietro all’800 con i ragionamenti sulla forma di Hildebrand e Fiedler, o in ambito storico artistico con quelli di Riegl e di Schmarsow; e nella prima metà del ‘900 di Wölfflin e Panofsky, e ancora tra gli artisti pensare a Klee come a Kandinsky e poi ai costruttivisti, o magari agli studi di psicologia della percezione di Arnheim. insomma, lì dove si è pensata la relazione tra spazio e vista e tra tempo e coscienza, ci si potrebbe trovare un antecedente di un qualche pensiero, di una qualche osservazione, di una qualche ipotesi che Friedman elabori.
questa relazione e anche questa dipendenza da speculazioni teoriche che si sono andate facendo nel corso del ‘900, non intacca per nulla l’originalità dell’approccio e delle tesi di Friedman; semmai, una più precisa comprensione di questi legami e debiti risulterebbe molto positiva, in quanto finirebbe per mitigare un po’ l’apparente stravaganza con cui si presentano e anche un po’ l’apparente isolamento da cui sembrano nascere.