Adolf Loos e Vienna è dedicato alla complessa avventura del progetto e
della costruzione del celebre edificio di Michaelerplatz, con un'analisi
critica degli scritti relativi di Loos e una eccezionale raccolta dei
documenti di progetto e delle complicate avventure della loro
approvazione municipale.
Il libro sottolinea, semplificando un po', la felice «sovrapposizione di
fonti classiche e anonime», l'obbiettivo di costruire un esempio di
architettura «valido per la collettività ed insieme per l'individuo...
qualcosa che sapesse rispettare anche l'architettura anonima della
città».
La fortuna critica di Loos, specie negli ultimi trent'anni, ci ha fatto
conoscere attraverso i suoi scritti la complessità del pensiero e le
relazioni che esso ha avuto nella grande stagione intellettuale della
cultura austriaca nel trentennio precedente il conflitto 1914-1918 e la finis Austriae: non solo nell'architettura, anche in letteratura,
pittura e riflessione filosofica.
Certo anche Loos è «architetto della tabula rasa», come dice il suo
amico Karl Kraus, capace di cogliere in ogni minuzia i segni della crisi
e delle sue vergogne, o, come scrive Ludwig Hevesi, che definisce il
suo «Café Museum» il «Café Nihilismus». Ma, al contrario di una parte
dell'avanguardia, niente è più lontano da Loos dell'idea di prodotto, o
meglio di progetto come produzione, capace con la forza della tabula
rasa linguistica di regolare la razionalità sociale della produzione
stessa, di riparare ingiustizie, di costruire il visibile di una nuova
società senza classi. Non sembra che per Loos sia possibile alcun
riscatto sociale attraverso l'architettura. Soprattutto, contrariamente
all'avanguardia, l'architettura non è in alcun modo identificabile con
l'invenzione linguistica, anzi con il gioco linguistico, come segno il
cui valore appartiene in gran parte alla rappresentazione astratta del
disegno. Niente poi è più lontano in Loos dell'idea del nuovo come
valore. Egli rinuncia a fingere «l'eccezione» proprio affinché fatti e
valori non vadano confusi. Cultura moderna è quindi, per Loos, anzitutto
cultura della contraddizione, della resistenza di fronte agli «stracci
presi a prestito», come egli dice, della falsa invenzione dell'artista
di avanguardia dell'Art Nouveau o degli ismi dei movimenti degli anni
del dopoguerra. Tali stracci non possono in alcun modo travestire la
crisi.
Loos parla spesso di questa resistenza come verità. Il tumulo allora
diviene l'unica grande architettura, perché è là dove si realizza la
verità del nesso tra morte e linguaggio, le due facoltà umane per
eccellenza. Loos ci parla così di una regione essenziale della
modernità: una regione angolosa, senza graziosità possibile, dove
l'architettura scava per trovare il luogo solido della sua fondazione.
E Loos ha di nuovo ragione quando capisce che questa barbarie non si
lascerà correggere dalle forze dell'architettura e che la sua
traiettoria verso il basso è molto lontana dall'essere compiuta. Anche
nell'edificio della Michaelerplatz, tanto detestato dall'imperatore
Francesco Giuseppe ma difeso da Otto Wagner, è la disperazione che gli
fa coniugare classicità con anonimità piccolo borghese dell'architettura
urbana della Vienna dopo il Ring.