Recensioni / Ineliminabile delicatezza dell'opposizione permanente

La diffusione di un certo tipo di cultura sconta, in Italia, difficoltà rilevantissime. Non è mistero che la letteratura di ascendenza accademica riesca assai poco a contagiare circuiti diversi da quelli in cui nasce, anche a prezzo, perciò, di rinunciare a un’investigazione reale dei temi di studio, e di divenire sempre più produzione letteraria settoriale, inadeguata, isolata, distante, talora certamente costosa. Sembra, sovente, smarrita la stessa capacità di articolare un riferimento serio e rispettoso ad altre forme di Sapere, ivi comprese le Arti, figurative e non, che pure nei meccanismi di formazione della coscienza sociale hanno peso, pari o superiore, quanto la più nobile, autorevole e specialistica (un neologismo delle controriforme scolastiche: professionalizzante?) dottrina accademica.
 Anche per queste ragioni, leggere “Gli Occhiali di Pessoa. Studio sugli eteronimi e la modernità” di Ercole Giap Parini, per i tipi di “Quodlibet Studio” (Macerata, 2012), è esercizio che aggiunge interesse rispetto allo stesso tema di cui il titolo anticipa di trattare. Se si accetta che i nomi siano così importanti da poter persino arrivare ad essere “conseguenza delle cose”, si ponga attenzione alla felice titolazione proposta dal Parini. Quel che noi cerchiamo di studiare, dalla figura del Pessoa, e seguendo il testo dell’Autore, sono gli “occhiali”, non gli “specchi” (la casa degli specchi, la sala degli specchi, il gioco degli specchi), non le “lenti” (anche se sempre di messa a fuoco parliamo), né il binocolo né tantomeno il microscopio (o viceversa). Gli occhiali suggeriscono una visualizzazione dell’esistente che è in rapporto diretto col mezzo che si utilizza per approcciarla: ingrandisce e vivifica, specifica e scompone, deforma e avvicina, distanzia e sfuma. Tutto in base a quali occhiali l’uomo scelga per vedere, e a causa di quale disturbo, e con l’intenzione di visualizzare quale oggetto.
Il testo, impreziosito, peraltro, dalla post-fazione di Paolo Jedlowski, che aggiunge ulteriori, possibili, orizzonti interpretativi, rispetto al sagace lavoro di Parini, mantiene una fresca leggibilità e un’accessibilità livellare, per cui anche il non addetto ai lavori, che non voglia immergersi nella ricca bibliografia proposta, può apprezzare il filo conduttore del libro e la sensazione di ammirazione che lo pervade, pari solo al tentativo di franca, compiuta, ricostruzione che porta avanti. L’analisi di Parini appare piuttosto interessante anche nei brevi riferimenti che sono dedicati alle scelte linguistico-espressive di Pessoa e, in definitiva, alla moltiplicazione dei linguaggi che può essere ambiente applicativo e concausa della moltiplicazione dei personaggi: l’impostazione filologica, senza pretendere sconfinamenti nel campo della critica letteraria ma assumendone taluni degli orientamenti più interessanti, si rivela nelle frequenti citazioni dell’opera di Pessoa, collezionate secondo un’esigenza di tematizzazione e coerenza, piuttosto che seguendo i percorsi narrativi o le contingenze editoriali dell’opera del grande portoghese. Il filo conduttore degli eteronimi, che è cifra di estetica e politica letteraria, prima che espediente stilistico di rara capacità suggestiva, appartiene forse a un’esperienza singolare della società, sulla cui peculiarità Parini costruisce alcune delle pagine più belle del suo lavoro: Pessoa è un fanciullo mite e meritevole di alcune benemerenze in Sudafrica; è in cammino per una Lisbona che si traduce in una cronica ingovernabilità, dove anche l’elogio di stabilità (e la petizione di principio) per i sistemi monarco-anglosassoni viene stemperato da numerose delusioni esistenziali e personali. È il traduttore all’avanguardia di un certo dibattito filologico europeo, è l’agente commerciale che non vede l’ora di calarsi al tavolino della sua passione, dando alla mensa della sua professione il minor pathos possibile. È soprattutto (come ha modo di osservare il Parini) un personaggio della sua storia, o meglio: della storia dei suoi tempi. In quegli anni tra la fine del XIX Secolo e il contraddittorio primo terzo del XX, l’esperienza del genere umano si immerge in una frantumazione esistenziale che, fino ad oggi, probabilmente, non ha pari nella Storia. L’organizzazione ottocentesca del lavoro e dello spazio vira verso la dimensione urbana che connoterà la politica edilizia novecentesca europea (e con una superficie di zona aggredibile ancora allo stato verginale). Si fa strada un’insoddisfazione verso i crismi morali dominanti che in molti casi e in molti contemporanei di Pessoa, da Pirandello a Joyce, non riesce a divenire un’istanza antisistema, ma che rompe, pur contraddittoriamente, i vincoli con la reazione, col clericalismo come habitus oggettivo della società (dopo il giurisdizionalismo, non era stato più nemmeno habitus soggettivo del legislatore), preconizza scetticismi e delusioni verso l’ancora embrionale movimento operaio organizzato, sebbene si nutra di storie marginali nella loro medietà e perfettamente “medie” nella loro marginalità. E, ben più di queste sottolineature, risultano fulminanti i veloci parallelismi che Parini propone rispetto a Musil e Ortega y Gasset: gli occhiali di Pessoa vivono il secolo con la stessa grazia enigmatica dei cappelli del filosofo spagnolo. Tornando alle osservazioni preliminari con cui si apriva questa riflessione, vien da pensare che un approccio quale quello veicolato in “Gli Occhiali di Pessoa. Studio sugli eteronimi e la modernità” possa, forse unico tra i molti attuabili, rispondere a entrambe le perplessità con cui l’interprete è costretto a fare i conti: una compressione quasi afasica della cultura nelle maglie di chi pretende di esercitare il potere; la necessità di far del perimetro della propria indagine la base provvisoria su cui saggiare quanto succede fuori dal proprio studio e dalla propria stanza di lavoro: attaccare la pretesa cogenza di un’indefinita intrapresa collettiva (i cui canoni sono rimessi alla valutazione di oligarchie), nella frantumazione dell’individuo in rivoli riottosi e ostili, significa già nutrire il rampicante della critica, contro la protervia di tutte quelle illusioni che nascono fuori dal Sé. Il primo Debord scalpita nelle retrovie del dopoguerra, nella ridefinizione culturale successiva, appunto, alla Seconda Guerra Mondiale. Nel mentre l’umanità, omaggiata da Tabucchi e Parini, e raccontata da Pessoa, si muove verso essa. Inconscia, frammentaria, in asfissia.