Una polemica che fece rumore negli anni 30: per l’accusa lo scrittore ceco «era filosoficamente inutilizzabile, malgrado la larghezza di vedute» e si rese «complice» della disfatta morale europea. L’amico Max Brod reagì sdegnato.
Non c'e senso. Ma bisogna continuare... perché ciò che Kafka descrive, e non ha spiegazione, accade veramente». In queste parole il filosofo Franco Rella (Rovereto 1944) racchiude la sfida che la lettura di Kafka ci impone. «Tutta l’opera di Kafka sfugge a ogni interpretazione» e tuttavia genera una continua, incessante ansia di interpretazione». Perché la realtà stessa è così, quella realtà che lo scrittore praghese, morto nel 1924, sembra aver previsto con decenni di anticipo: 1'orrore assurdo di Auschwitz, che travolgerà, fra milioni di vittime, anche le sue sorelle e la sua amica Milena.
Rella raccoglie la sfida con un libro che pone a confronto le due «scritture estreme» del Novecento: Proust e Kafka. «C’è qualcosa di comune in Kafka e in Proust» aveva scritto nel 1934 Walter Benjamin (1892-1940), il grande critico ebreo berlinese che tradusse la Recherche e dedicò a Proust e a Kafka due saggi memorabili; nei quali però il confronto tra i due scrittori rimane in sospeso. È Rella ora a realizzare, in pagine di straordinaria finezza, con un'indagine prima congiunta e poi disgiunta sui due autori che pongono, al proprio tempo e al nostro, le domande fondamentali sul1'esistenza.
L'indagine approda però a una contrapposizione. Sia Proust sia Kafka vissero soltanto per la scrittura e opposero la scrittura alla vita. L'opera di Proust tuttavia, come aveva suggerito Benjamin, «ha il suo sole nella morte»; in Kafka invece neppure nella morte c'è redenzione. L'immensa Ricerca del tempo perduto e «la costruzione lenta, faticosa ma alla fine vincente di un "poter morire"»: morire, aggiungiamo, quando la Grande Opera è sostanzialmente compiuta. Kafka invece visse come un fallimento il proprio tentativo di raffigurare l'indescrivibile; e infatti chiese all'amico ed esecutore testamentario Max Brod di distruggere i suoi manoscritti. La lotta della scrittura «contro il potere» - il potere della famiglia, della società, della tradizione ebraica, dal desiderio, della corporeità, della vita - approda a una condanna assai peggiore della morte: il non poter morire descritto nel racconto II cacciatore Gracco (Gracco è Kafka stesso: gracco o cornacchia, in boemo kavka, è appunto il significato del suo nome). Come stupirsi che Kafka abbia accolto con sollievo lo sbocco di sangue che gli annunciava la tubercolosi? Del tutto opposta a quella di Rella è la via scelta dal filosofo ebreo tedesco Gündxer Anders (1902-1992) per confrontarsi con Kafka. Allievo di Husserl e Heidegger, esule nel 1933 a Parigi e poi negli Stati Uniti, marito di Hannah Arendt, Anders ritoma nel 1950 a Vienna e dedica il suo impegno alla lotta contro il pericolo atomico, e poi contro la guerra dal Vietnam. Nel 1951 egli pubbhca un saggio provocatorio e geniale, Kafka. Pro e contro,in cui sviluppa il testo di una conferenza da lui tenuta nel 1934 a Parigi, presso l'Istituto di studi germanici, e caduta allora nella più gelida indifferenza.
In quella conferenza Anders non si era limitato a mettere in guardia con vent'anni di anticipo contro una «moda kafkiana» di là da venire: aveva osato attaccare Kafka in persona, accusandolo di essere «un autore filosoficamente e moralmente inutilizzabile, malgrado la ricchezza della sue vedute»! Per superare lo shock di una simile affermazione, che suona quasi blasfema, rammentiamo che Anders sta parlando nel momento in cui la profezia di Kafka comincia a prendere corpo. Un anno prima Hitler ha preso il potere in Germania. Anders vede avvicinarsi la disfatta morale della civiltà europea e la persecuzione del suo popolo, che meno di dieci anni dopo diventerà lo Sterminio degli ebrei d'Europa.
Kafka non serve per combattere tutto questo, perché è acquiescente alla propria stessa condanna. Il K. dal Castello «approva il Dio malvagio come legittimo». Ateo (come Anders), Kafka è «un ateo che si vergogna», che lotta impugnando le armi non in difesa ma contro se stesso. In questo senso Kafka è un «apologeta», se non dal Male, della sua «necessità». «Kafka fa parte dei propri nemici: ne è il più radicale». È, insomma, complice degli assassini. Questa non è un'interpretazione: è un grido di rivolta e di ribellione morale, che fa pensare all'accusa, altrettanto ingiusta, rivolta alle vittime della Shoah: perché vi siete lasciati uccidere senza combattere?
Max Brod, l'amico di Kafka, reagì con sdegno al libro di Anders, scrivendo nel 1952 su una rivista svizzera «Assassinio di un fantoccio chiamato Franz Kafka». Secondo Brod, Anders attacca «un altro Kafka», che nulla ha di comune con il Kafka reale. Kafka infatti nell'ultima fase della sua vita, e in particolare nel romanzo incompiuto Il castello, avrebbe aperto un varco alla speranza «nonostante tutto», manifestando «una fede profonda nell' esistenza di forze-guide nascoste». Anders ribadì il proprio punto di vista, e la polemica si chiuse con la controreplica di Brod.
L'intera polemica, che nulla ha perso della sua attualità, è pubblicata ora da Quodlibet a cura di Barnaba Maj: è una lettura importante e avvincente, soprattutto perché, al di là della tesi accusatoria, l'analisi di Anders della scrittura kafkiana contiene passi di grande lucidità e profondità.
Franco Rella, «Scritture estreme. Proust e Kafka», Feltrinelli, Milano 2006, pagg. 158, € 14,00;
Günther Anders, «Kafka. Pro e contro», a cura di Barnaba Maj, traduzioni di Paula Gnani e Stefania Dalena, Quodlibet, Macerata 2006, pagg. 206, € 14,50