I mattoidi italiani, il nuovo libro di Paolo Albani (Quodlibet 2012, pp.
339, euro 16), è un catalogo, una collezione, un museo. Raccoglie
ritratti di individui (reali) che si sono distinti, in varie discipline,
per invenzioni strampalate: prodotti creativi ma temerari, frutti di
genio parallelo che costeggiano, senza incontrarli mai, la regolarità,
l'intuito, l'intelligenza. Da qui il primo tratto di fascino e, insieme,
la tristezza sottile di questa antologia, dove originalità e solitudine
sono inseparabili: ciascuno dei mattoidi è solo, perduto
nell'abbondanza dei suoi argomenti (l'ipertrofia ragionativa è
ricorrente, implacabile come la martellante ripetitività delle tesi);
ciascuno è inascoltato, «non ha maestri né discepoli» (così Queneau
definiva una specie imparentata ai mattoidi, quella dei folli
letterari). Ne siamo, senza capire subito perché, un po' sorpresi: in
fondo, i mattoidi non siamo abituati a pensarli soli. Tornano in mente i
nonni degli eroi di questa raccolta, Bouvard e Pécuchet, che dividevano
scoperte e sconfitte, temperando la vicenda implacabile dell'idiozia
con la dolcezza della compagnia reciproca; ogni personaggio ritratto da
Albani galleggia invece nel cosmo come l'ultimo uomo della storia. Solo
di fronte alla propria passione. Che è sempre, a sua volta, esclusiva.
Bouvard e Pécuchet - ancora loro - erano universalisti: nulla di umano
li respingeva, percorrevano, per cicli, l'intero scibile; questi
mattoidi sono specialisti: non c'è quadratore del cerchio che si diletti
anche di trasmissione del pensiero, non c'è biologo tentato
dall'architettura. Anche la monomania accentua l'isolamento.
Eppure, non ultimo merito di questo libro è quello di rimettere in
circolazione una genealogia: Albani, come ogni autore che si rispetti,
seleziona i suoi antenati, li ripropone all'attualità letteraria, fa
venir voglia di leggerli, per la prima o per l'ennesima volta. Il
capostipite dichiarato non è però il Flaubert di Bouvard e Pécuchet (di
cui Albani tace). Omaggiato fin dal titolo, si fa avanti invece Carlo
Dossi, con I mattòidi, del 1884. Il libretto è un repertorio di
bizzarrie architettoniche proposte, due anni prima, al concorso per il
monumento Vittorio Emanuele II a Roma. Il titolo, appunto, segna
l'ingresso in letteratura di un termine che Lombroso - al quale I
mattòidi è dedicato - aveva introdotto in campo medico. Geni senza
genio, i mattoidi di Dossi sono gli sconfitti al concorso monumentale,
ideatori di progetti che mai sarebbero stati realizzati, e che solo la
pietas tagliente dello scrittore sottrae al sonno eterno.
Il confronto è impegnativo: il libro di Dossi è un piccolo capolavoro;
ma la processione di personaggi stralunati di Albani non manca certo di
fascino. Il confronto è anche illuminante, in entrambe le direzioni (i
buoni libri hanno effetti retroattivi). Dossi racconta i progetti
indirizzandone, per forza di lingua, la lettura: chiose a margine («La
sublimità dei concepimenti non impedisce al sig. Cànfora di trastullarsi
con qualche bisticcio grammaticale»); formule introduttive («Anche il
n. 88 predilige gli edifici semplici e sodi»; «Impigliamoci ora nel mare
algoso delle allegorie») e conclusive («Tutto spira matemàtica e
simmetria»); scelte lessicali inequivocabili («poveri bozzetti
fuggitivi», «aborti forse di geni ammalati»). La postura di Dossi è,
insomma, giudicante. Senno e sragione, da rive opposte, si guardano in
faccia, e il libro si fonda, ossimoricamente, sull'alterità dei mattoidi
a fronte di chi è in grado di giudicarli tali.
Tutt'altra musica con Paolo Albani. Lui, sembra quasi che i mattoidi li
prenda sul serio. Classifica gli autori (ci sono dodici categorie, nove
delle quale raggruppano due o più specialità, per esempio: linguisti e
creatori di lingue universali; astronomi, fisici e scienziati in
generale; medici, biologi e naturalisti...), ma il suo intervento si
limita alla creazione meticolosa di griglie tassonomiche. Ordina, non
valuta. Alla passione di collezionista (che implica un rapporto con la
sovrabbondanza, l'accumulo) Albani affianca una scrittura fondata sulla
pulizia, addirittura sulla sottrazione: tanto inusuali sono le storie e
le idee dei personaggi, quanto piana la voce che le racconta, pacata,
lontana da passioni esagitate. Snocciola le sue storie, Albani, senza
concedersi «a parte» giudicanti, ed evita protagonismi stilistici.
Arditezze lessicali, frasi avventurose, grovigli logici, se ci sono,
stanno tra virgolette, perché non appartengono al sobrio classificatore,
ma ai personaggi. Non risalta, come già in Dossi, il gusto del
particolare eccessivo, del picco di ridicolaggine, di originalità, di
idiozia. Al contrario, persino gli estremi si stemperano in un flusso
biografico che sembra voler restituire a ogni vita, anche la più
intellettualmente pericolante, la dignità di essere raccontata.
Impassibile come Buster Keaton, Albani affronta a piè fermo aggressioni
contro il buon senso, la logica e la grammatica senza che gli sfugga
un'alzata di sopracciglio, un sorriso. Non crede di averne diritto.
Inventori e profeti, sessuologi e naturalisti sono, infine, poveri
diavoli, sono i lunatici di Gianni Celati e di Cavazzoni, sono parte di
noi. Se i mattoidi di Dossi erano alieni, quelli di Albani sono
fratelli.
Anche la galassia degli studi seri è meno lontana di quanto si vorrebbe:
i due sistemi si incontrano, si contaminano, esibiscono pericolose
sovrapposizioni. Una per tutte, la più significativa: racconta Albani
che tale Bellini Bernardo dedicò alle pene dell'Italia sotto il dominio
austriaco un poema in 34 canti che riprendeva il sistema di rime
dell'Inferno di Dante. Ricordata da Mario Praz come «museo del cattivo
gusto letterario», quest'opera si accende di nuovo interesse quando
appare chiaro che il Bellini in questione altri non è che il coautore di
uno dei monumenti della lessicografia italiana, il dizionario passato
appunto alla storia come 'il Tommaseo-Bellini'. Anche i capolavori,
sembra dirci Albani, mostrano le cicatrici, i ricordi mancati di una
deriva che poteva compiersi, e, forse per poco, non c'è stata. È chiaro,
comunque, che quello che qui interessa è il poema. Al dizionario
spetta, concisa, la conclusione: «Bellini trascorre gli ultimi anni
della vita, ormai completamente sordo, collaborando, su incarico
dell'editore Pomba di Torino, con Niccolò Tommaseo, cieco e pieno di
acciacchi, alla stesura del Dizionario della lingua italiana».
Raccoglitore di cose desuete, Paolo Albani lo è da anni, con libri non
meno memorabili di questo, tutti accomunati dal loro essere repertori di
stramberie (le scienze anomale), o di impossibilia (i libri che non
esistono, le lingue inventate). Ognuna delle sue opere è un
riassemblaggio, che pesca oggetti sorprendenti dal limbo della
non-esistenza, della dimenticanza, dell'illegittimità: siano teorie
accidentate, lingue mai parlate, libri non scritti, tutto è ordinato,
etichettato, e ripresentato in forma di agguerriti contro-canoni. Forse
per questo resta qualcosa di polveroso nelle crestomazie di Albani: si
pensa a certe stanze descritte da Dickens, piene di segni del tempo e di
rottami. Ma l'erosione dei giorni e le distrazioni della memoria non
sono descritte, sono combattute. C'è, in ognuna di queste raccolte di
meraviglie anomale, e nella loro somma, una strana poesia, che ha a che
fare con l'ostinazione, con la simpatia silenziosa, con la sobria
disillusione di chi ha letto e amato molti libri, per il dritto e per il
rovescio, e ha scoperto il piacere di smontarli, per poi rimontare
frammenti di storie, detriti e dettagli. Perché mettere in fila sotto la
luce quello che restava in ombra è il modo più vero di opporsi alla
fragilità dei libri, di rendere loro omaggio.