Il vezzo di citare Karl Marx è divenuto una costante da parte di chi,
usando una frase del filosofo tedesco, vuole continuare a legittimare le
politiche economiche e il modello sociale responsabili della crisi
economica che sta ridisegnando la geografia del capitalismo
contemporaneo. Povertà diffusa - eufemisticamente qualificata come
«declassamento» -, disoccupazione di massa, crescita dell'esercito dei
«working poor» regolamentato dalle leggi sulla precarietà: sono elementi
che ricordano le pagine del primo libro del Capitale, dove Marx parlava
della condizione della classe operaia e di violento processo che
accompagnò la rivoluzione industriale. C'è un'amara ironia della storia
nel leggere frasi di Marx su magazine alfieri del neoliberismo -
«Economist» e «Time» - o nell'ascoltarle in discorsi di personaggi da
sempre legati al pensiero neoliberale (l'ultimo in ordine di tempo è
stato il presidente dell'eurogruppo Jean-Claude Junker). Ed è solo
parzialmente consolatorio apprendere che testi più limpidamente marxisti
sono stati nella parte alta delle classifiche delle vendite editoriali
(l'ultimo libro di Eric Hobsbawm è stato un vero e proprio caso
editoriale in Inghilterra). Ma c'è un elemento che emerge in questo
revival marxiano: lo stato dell'arte della riflessione attorno alle
opere del filosofo di Treviri.
Il fallimento rimosso
Tolto il progetto, avviato nel 1998, di ripubblicare tutte le opere di
Marx da parte di un eterogeneo gruppo di studiosi in base a più rigorosi
criteri filologici e temporali rispetto l'acquisita stampa delle opere
per tutto il Novecento, la riflessione marxiana è ormai relegata ai
margini dell'accademia o a piccoli gruppi intellettuali. Va da sé
l'eterogeneità dei contributi, che spesso seguono sentieri tracciati nel
Novecento da parte delle tante scuole marxiste, segnalano che l'eredità
marxiana non è mai equivoca. In una recente «lezione» tenuta a Bologna
nello spazio occupato Bartleby, lo studioso Sandro Mezzadra ha indicato
come il «pluralismo» che determina la riflessione attorno a Marx
costringe comunque a fare i conti con una attitudine che non solo voleva
interpretare il mondo, ma anche trasformarlo (bartley.info). La
cassetta degli attrezzi ricavata dalle opere marxiane può certo essere
tranquillamente usata nonostante le differenze dentro il marxismo
europeo, tra questo e quello sovietico, senza dimenticare gli importanti
contributi provenienti dalla Cina o dal continente latinoamericano. Ma
non può essere ignorata la pesante, e quasi sempre negativa, eredità
proveniente dalle esperienze del socialismo reale. Fare i conti con Marx
significa dunque ripercorrere criticamente il «pluralismo» del pensiero
marxista - invito fatto già a suo tempo da Hobsbawm - e,
contemporaneamente, affrontare le conseguenze del fallimento del
socialismo reale, con il suo portato di illibertà e la scia di dolore,
negazione dei più elementari diritti individuali che lo ha
contraddistinto.
In un celebre passaggio del saggio di Jacques Derrida sugli Spettri di
Marx, il filosofo francese affermava che l'autore del Capitale manteneva
intatta la sua capacità critica nell'analisi del capitalismo. Il
macigno che impediva - Derrida scrive Spettri di Marx nel 1993, cioè nel
periodo di ascesa mondiale del neoliberismo - a molti teorici di
avvicinarsi all'opera marxiana stava in quella undicesima tesi su
Feuerbach, che stabiliva il passaggio dall'interpretazione del mondo
alla sua trasformazione. Questo passaggio all'azione inibiva, secondo
Derrida, di assumere Marx come un grande filosofo da studiare e piegare
ai «misteri» della tardamodernità. La priorità stava nella teoria, non
dunque alla prassi.
Ultimamente, è stato pubblicato un volume che analizza le genesi, il
clima culturale e politico di chi ha privilegiato la centralità del Marx
teorico rispetto al militante. Si tratta del Marxismo culturale ed è
stato scritto da Marco Gatto, giovane ricercatore che ha scritto
monografie su Edward Said (mimesis edizioni), Fredric Jameson
(Rubbettino) e Glenn Gould (Mosaico-Catedrale).
L'assunto analitico da cui parte Gatto è presto riassunto. La sua
ricognizione riguarda soprattutto la «ritirata» del marxismo inglese e,
per altri versi statunitense, nelle università negli anni Sessanta del
Novecento, accettando una spoliticizzazione dei percorsi di ricerca.
Questo ingresso del pensiero critico nell'Accademia è nato da un intento
condivisibile - innovare la riflessione marxiana e così rompere la
cappa costituita dall'egemonia del materialismo dialettico di stampo
sovietico -, ma il prezzo da pagare era l'abbandono di qualsiasi
ricomposizione tra teoria e prassi. È questo peccato originale che
condizionerà gli sviluppi successivi, fino ai giorni nostri, con un
giudizio senza appello contro gli «studi culturali» e di tutte le
«contaminazioni» del marxismo con altri autori del pensiero critico.
La geografia del marxismo degli anni Sessanta offerta dall'autore è
abbastanza scarna. Ci sono i «francesi» - Jean Paul Sartre e Louis
Althusser -, i «francofortesi» (Adorno e Horkheimer sono tornati in
Germania dopo l'esilio americano), gli italiani, ai quali però è
dedicato pochissimo spazio. E poi c'è un piccolo, ma agguerrito gruppo
inglese che non milita nel piccolo partito comunista britannico (Eric
Hobsbawm è ritenuto un grande storico, ma poco influente dal punto di
vista teorico). Il più noto tra loro è Edward Palmer Thompson, che ha
lasciato polemicamente il partito comunista nel 1956, quando le truppe
del patto di Varsavia entrarono a Budapest per reprimere la rivolta
ungherese. Ha scritto già alcuni saggi, dedicati alle figure «epiche»
del socialismo non marxista inglese, come William Morris. Accumula dati
per costruire un grande affresco sulla formazione della classe operaia
inglese che prenderà forma nel 1963, costituendo uno dei libri di
riferimento per più generazioni di storici sociali. La sua etorodossia
sta nell'offrire una rappresentazione plastica del dualismo della
«classe in sé» e della «classe per sé». Il passaggio alla «classe per
sé» non è necessariamente mediato né dal partito, né dal sindacato, come
invece sostengono molti marxisti «tradizionali», ma risiede nella
politicizzazione delle forme di vita, nelle consuetudini della vita
quotidiana. Thompson legge i testi dei «francesi» e non ne rimane per
niente affascinato, eccetto alcuni saggi di Sartre, laddove sottolinea
come la ricerca della libertà parta da quella comunità «in fusione» che
ha molti echi nella retorica della working class che domina il movimento
operaio inglese. Altro personaggio è sicuramente Raymond Williams,
studioso di letteratura inglese, scrittore per diletto di fantascienza e
attirato dal rapporto di interdipendenza tra cultura di massa e cultura
«alta».
La rilevanza di Williams nella formazione del «marxismo culturale» sta
proprio nell'assegnare una centralità alla produzione culturale nella
formazione della coscienza di classe e nel pensiero dominante. Lettore
di Gramsci, prova ad applicare il concetto di egemonia alla realtà
inglese, scrivendo saggi che influenzeranno moltissimo il marxismo
europeo degli anni Sessanta e Settanta. Considera i «francesi» troppo
astratti, poco interessanti per fornire strumenti teorici alla «classe».
La sua diffidenza verso la produzione teorica non ne fa tuttavia un
intellettuale fustigatore della prassi teorica. Semmai è interessato a
indagare a fondo il modo di produzione culturale, caratterizzato dalla
diffusione della radio, della stampa e della televisione.
Marco Gatto ne riconosce il valore di studioso; afferma che i suoi
contributi mantengono la capacità critica di svelare come si forma
l'egemonia culturale nel capitalismo maturo. Anche la riflessione di
Williams sulla cultura popolare come momento «ambivalente»: non
subalterno al pensiero dominante, ma neppure come espressione di una
resistenza attiva della classe. Il limite, per Gatto, di Williams è il
disinteresse per la prassi della classe, cioè per i conflitti, le sue
forme di organizzazione. In altri termini, Williams è sì un marxista, ma
disinteressato a trasformare il mondo.
Aldi là dell'Atlantico
Il volume non è però solo un saggio di «storia delle idee». L'autore è
consapevole di avere a che fare con teorici di indubbio valore. Ne
conosce le opere, sa riconoscere le differenze esistenti, ad esempio,
nel campo althusseriano. Scrive dei conflitti tra le diverse «scuole
marxiste». Così Terry Eagleton, un altro marxista con formazione
letteraria, è un intellettuale molto diverso da Perry Anderson, l'unico
che conosce e apprezza il marxismo italiano e che cerca di tendere,
senza successo, un ponte tra i «francesi», gli italiani e gli inglesi.
Ed è proprio Perry Anderson che sottolinea per primo i limiti del
«marxismo culturale», che con fortuna si sta facendo strada anche negli
Stati Uniti. La traversata dell'Atlantico tuttavia è la parte meno
convincente del libro, eccezione fatta per le interessanti pagine
dedicate agli ultimi scritti di Frederic Jameson, quando la dialettica
di Hegel viene riscoperta come uno strumento «potente» per uscire dalle
secche di una prassi accademica che consente eccentricità, ma sempre
compatibili con lo status quo.
Ed è proprio la dialettica che Marco Gatto indica come antidoto al
«marxismo culturale». Dialettica come chiave di accesso e di
comprensione della totalità capitalistica. Ma anche come cassetta degli
attrezzi che consente di decrittare il processo in divenire del regime
di accumulazione capitalistico. Con uno stile espositivo a tratti
apodittico, l'autore invita a considerare chiusa la lunga parentesi che
ha messo Karl Marx nelle polverose biblioteche universitarie. È la crisi
economica che ha bisogno di ben altri strumenti per essere compresa.
Nulla da obiettare. C'è però da dubitare che la «ricomposizione» tra
teoria e prassi avvenga dopo aver assegnato alla prassi una rinnovata
centralità. Perché così facendo si ripresenta il nodo del rapporto tra
struttura e sovrastruttura, che molti marxisti hanno cercato di
sciogliere, rimanendo tuttavia imbrigliati in stringenti contraddizioni.
C'è semmai da discutere se la teoria non sia essa stessa una prassi,
una potenza materiale che si dispiega all'interno dei rapporti sociali
di produzione. A lungo richiamati dall'autore, ma mai messi a tema in
questo saggio.