Recensioni / Vox clamantis in deserto. Nota su Paolo Albani

Ci sono autori che pubblicano libri e sanno già in partenza che le loro opere non saranno lette, e che saranno invece il loro cruccio, il loro tormento; eppure li hanno voluto contro tutto, contro il proprio interesse, contro i consigli di tutti, e nonostante tutte le delusioni già passate.
I Mattoidi italiani, raccontati, catalogati e analizzati in questo volume da Paolo Albani, sono stati appunto persone che hanno avuto qualcosa da dire. Uomini – fra l’altro sono proprio tutti uomini quelli raccontati in questo libro – che sono stati mossi dal desiderio di veder riconosciuto ciò che essi hanno visto, capito, immaginato.
Albani si rifa al Carlo Dossi che raccolse i progetti presentati per il concorso per il monumento a Vittorio Emanuele II a Roma (cfr. Carlo Dossi, I mattoidi al primo concorso pel Monumento in Roma a Vittorio Emanuele II, Roma, 1884 (ora in Opere, Adelphi, Milano, 2011); i mattoidi di Dossi sono autori di progetti eccentrici, eccessivi, al margine della follia, ma che rimangono nei limiti della normalità, e anzi spesso della mediocrità. I mattoidi di Dossi, dei quali si occupa lo stesso Albani, non erano architetti o scultori, ma facevano tutt’altro. Albani, per scegliere quali fra le tante categorie di esperti (autonominatisi tali) inserire nel suo volume, si rifa anche a Raymond Queneau e alla sua ricerca sul “folle letterario”: «Un autore edito le cui elucubrazioni (non uso il termine in senso dispregiativo) si allontanano da tutte quelle professate dalla società in cui vive, sia da tale società nel suo insieme, sia dai diversi gruppi, benché minimi, che la compongono, elucubrazioni che non rimandano a dottrine anteriori e che non hanno avuto eco alcuna. In breve, un “folle letterario” non ha né maestri né discepoli» (Queneau cit. a p. 324).
Uomini solitari, incredibili, non creduti, che si siano applicati alla linguistica e alla creazione di lingue universali, all’economia politica, alla poesia o alla psicologia. Uomini che non hanno potuto studiare, e che si sono presentati come spiriti anti-accademici, o piuttosto con l’ambizione di diventarlo.
Non vorrei togliere ai futuri lettori di Albani (al quale dobbiamo anche il Dizionario degli istituti anomali del mondo, uscito sempre da Quodilibet nel 2009) la scoperta di questi «talenti giustamente incompresi»; ma è interessante, per quanto ho detto finora, ricordate quanto scriveva nel 1958 Cero Cetti nel suo Libro per gli scrittori: «Se, insomma tutto ciò che fai ti torna a rovescio, o viene frainteso, quasi di certo sei nato per essere scrittore. Corri, senza indugio, dal cartolaio, compera una risma di carta, chiuditi in soffitta e affrettati a rivelare al mondo i tuoi divini pensamenti» (Carlo Cetti, cit. a p. 15). Chi era Cetti? Nato nel 1884 sul lago di Como, è stato un commerciante, e un autore molto prolifico: la sua bibliografia riempie una pagina intera. Ha scritto libri di filosofia, poesia, mnemonica, economia; e ha elaborato il brevismo, una teoria che prevede di ridurre il più possibile il consumo di sillabe e utilizzare sempre le parole più brevi. Cetti è il prototipo dell’autore che si pagava i suoi libri – e che faceva la gioia delle tipografie. Non si tratta, come giustamente nota Albani, però di un fenomeno che appartiene al passato. Anche se I mattoidi è un libro dal sapore marcatamente ottocentesco (e lo spirito di Cesare Lombroso è forse quello davvero illuminante, al di là del titolo scelto), pensiamo: quanti aspiranti scrittori (gli “autori di Quarta dimensione, per dirla con Eco) anche oggi fanno la fortuna di editori classici o virtuali?
Non si pensi però che il libro di Albani sia un libro divertente, o meglio non è solo divertente. Racconta di uomini solitari, che avranno probabilmente tormentato, tormentandosi essi stessi per primi, familiari, amici, colleghi, autorità (professori, politici ecc.). Ecco ad esempio un passo dalla biografia di Ignazio Villa, inventore di un “orologio mondiale”, che non saprei descrivere se non copiando parola per parola quelle di Albani: «Personaggio litigioso, negli ultimi anni della sua vita Villa è instancabile nel salire le scale di Ministeri, tribunali e redazioni di giornali per rivendicare un giusto riconoscimento alle sue invenzioni che propaganda con opuscoli e manifesti di protesta in cui si proclama: “Vittima sempre dei tristi detrattori svisatori del vero ed invidiosi e dell’avuta trascurata giustizia!”» (p. 318-319).
Uomini inclassificabili che, pur non riuscendo a saper andare oltre il proprio anonimato, hanno vissuto la tragedia della creatività, dell’aver qualcosa da dire e ritrovandosi sempre inascoltati, derisi o compatiti.
Questo non è un libro facile, e si rimane sempre sulla soglia, nella zona dell’indecidibile per dirla filosoficamente: come dobbiamo comportarci nei confronti di quelle teoria astruse, a volte francamente inaccessibili? Dobbiamo prenderle sul serio? Uomini senza maestri e senza discepoli; uomini che per convincere del loro genio non compreso gli increduli e i cinici (e convincere anche noi, attraverso Albani), possono diventare facilmente irritanti. A volte viene da chiedersi: ma come avranno fatto a non capire che i loro libretti dal titolo altisonante, che i loro annunci di futuri trattati, non sarebbero mai stati presi sul serio?
Uomini allo stesso tempo troppo e troppo poco “scientifici”. Mi pare proprio di poter dire che – Dorfles docet – i mattoidi si sono ritrovati a esporsi al rischio di essere alfieri del cattivo gusto, del Kitsch. Così la pensava ad esempio Mario Praz di Bernardo Bellini, un poeta che nell’Ottocento si è messo a riscrivere la Divina Commedia ambientandola nell’Italia risorgimentale.
Mattoidi, non “matti” come sottolinea Albani; mattoidi ai quali più che altro è mancato un pubblico.

Recensioni correlate