Recensioni / Un altro modo per fare l'Italia

Confesso che ho percorso questo nuovo libro di Vito Teti, intitolato “Ilpatriota e la maestra”, (Quodlibet 2012), seguendo innanzitutto i sentieri della mia calabresità mai rinnegata. Una lettura, si dirà, indecentemente autobiografica... Intanto dedico subito all'autore ammirazione e invidia, per come disegna e approfondisce, con grandissima energia intellettuale - ma anche fisica e “motoria” - una antropologia dei luoghi (“Il senso dei luoghi” è il titolo di un libro fondamentale di Teti, pubblicato da Donzelli nel 2007): che sono i luoghi nativi della studioso, ancora gelosamente visitati o abitati da lui stesso: a cominciare da San Nicola in Crissa, dove lui è nato, e dove gli è riuscito di ascoltare, da bambino, i racconti ovviamente in dialetto delle donne, per esempio Caterina Martino e le sue figlie: a cominciare dall'epopea orrifica del brigante Vizzarro, che aggredisce gli occupanti francesi, ma terrorizza egualmentei calabresi: non soltanto i benestanti, ma pure la piccola gente del popolo... E finisce, il brigante, con l'uccidere il figlioletto, colpevole di piagnucolare, sbattendolo contro un muro: così che la moglie lo “giustizia”.
Anche i francesi terrorizzavano la popolazione, tanto che Caterina Martino giura: «I francesi erano metà animali e metà cristiani, e volevano rubare le soppressate».
Puro horror, si sarebbe tentati di commentare: ma Vito ha coraggio e dedica pagine e pagine a quella calabresità oscura, che contrappone alla taccagnería dei proprietari attaccati innanzi tutto alla robba, la ferocia dei briganti, da cui scaturiscono e si tramandano fino ad oggi le faide paesane, ma non solo...
Eppure una affascinante vena di speranza esiste, e l'anticipa il sottotitolo del libro che recita: «La misconosciuta storia d'amore e ribellione di Antonio Garcèa e Giovanna Bertòla”. E qui, come rileva anche la prefazione di Maurice Aymard, docente dell'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, agli inani gorgheggi ufficiali della celebrazione dei 150 anni dell'Unità d'Italia (in tempi tristi come questi che il Paese sta vivendo) si contrappone e squilla una Storia raccontata da una voce femminile: storia che anticipa, oso dire, lo slogan femminista dei nostri anni 70, “Il personale è politico”. E a scriverla è lei, la diciottenne Giovanna Bertòla, nata a Mondovì e diplomata “maestra normale del grado superiore”, l'unico riconoscimento culturale accessibile alle donne: Giovanna infatti si innamora e sposa Antonio Garcèa; lui, calabrese di San Nicola di Vallelonga, di anni ne ha 43, ha attraversato tutte le carceri borboniche, dai cosiddetti “criminali” ai bagni penali, è stato esiliato in Irlanda qui come a Londra gli esuli furono accolti trionfalmente poi, compiuta nel 1960 l'Unità d'Italia con capitale Torino, viene “parcheggiato” (la monarchia sabauda non gradisce i repubblicani e tanto più ne diffida se sono meridionali e garibaldini), insieme ai sopravvissuti compagni di sventura, proprio a Mondovì: dove «è un fiammeggiar di camicie rosse, e le ragazze si mangiavano con gli occhi quei bei matòt che il Generale (Garibaldi) aveva coperto di gradi». Antonio e Giovanna si sposano, e, appena sposati, lei si fa raccontare
metodicamente, sera dopo sera, le vicissitudini del patriota calabrese, dal Risorgirnento all'Unità, le battaglie e le sconfitte... Eppure Giovanna riesce a dare, insieme al dramma degli eroi, la bellezza dei paesaggi in cui il suo uomo e gli altri patrioti trascinano le loro catene: ed ecco, a p.93 del libro di Teti, il paragrafo dedicato, da Giovanna, a “L'isola bella": «Procida scrive - è una delle belle isole che formano un delizioso gruppo del golfo di Napoli. Bella ed amena, partecipa di quel cielo incantato del mezzogiorno e sembra fosse lanciata colà, in mezzo al Tirreno, per rompere la monotonia al navigar nell'alto del mare». Non sembra anticipare, la pur inesperta scrittrice, la suggestione e il sentimento espressi da Elsa Morante che, scoperta Procida, la mutò ne “L'isola di Arturo”, uno dei suoi romanz ipiù limpidi?
Ma la descrizione di Giovanna Bertòla subito si volge, e non potrebbe essere altrimenti, al dramma dei patrioti: «Deliziosa quanto le sue sorelle, Capri, Ischia e Nisida, ed al par di esse convertita dal genio malefico dei Borboni ad istrumento della più turbe tirannie». Il libro della giovanissima autrice viene stampato dal tipografo Zaccaria Sanchioli nel marzo del 1962 a Torino in 1500 copie da smerciare «a lire 2 cadauno». Il titolo: «Antonio Garcèa sotto i Borboni di Napoli e nella Rivoluzione d'Italia dal 1837 al 1862. Racconto storico per Giovannina Garcèa, nata Bertòla, di Mondovì».
La storia della coppia, e della famiglia che ne deriva-Giovanna partorisce due figlie, Clorinda e Luisa, e due figli, Anselmo (morto giovanissimo) e Roberto - pur peregrinando insieme al marito dal Nord al Sud e viceversa, per approdare definitivamente a Reggio Calabria - sifa metafora di un'altra storia possibile, tra Sud e Nord, tra uomo e donna, tra passione e ragione, tra ceti privilegiati e ceti popolari.
Un altro modo di fare l'Italia forse era realizzabile, questo è il senso, mi sembra, che Vito Teti dà al suo libro.
Ma ora tengo fede al mio autobiografismo cominciando dalla lettera di ringraziamento di Giuseppe Garibaldi a Donna Maria Marra, che I'aveva ospitato nella sua vasta casa signorile tra gli
agrumeti di Catona.
Donna Maria era la madre di mia nonna, che non ho potuto conoscere perché è morta dando alla luce la terza figlia, ahimé sempre femmina...
La lettera di Garibaldi comunque esiste, ed è toccata in eredità alla primogenita delle mie zie e quindi ai suoi eredi. Ma si tramanda pure la leggenda familiare che narra delle disposizioni perentorie date, in quell'occasione, da Donna Maria alla servitù: i letti per il Generale e gli Ufficiali dovevano essere preparati con i materassi del sontuoso corredo nuziale della padrona di casa: materassi di damasco giallo-oro, coltri di seta tessuta a mano, e tinta di viola con colori naturali.
Per “la truppa”, invece, Donna Maria comandò: «Riempite i sacconi con la paglia delle pannocchie di granoturco». Ma il Generale l'udì, e sentenziò: «Donna Maria, siete bella di faccia, ma brutta di cuore!». Concludo con l'osseruazione che l'autore de “Il patriota e la maestra”, sottolinea quando parla di Giovanna Bertòla: «Non riuscì a stampare la seconda parte del suo libro, ma non si arrese: insieme a un gruppo di donne colte ed emancipate inventò la prima rivista femminista italiana: “La voce delle donne”».
E sottolinea, Vito Teti: «La fortuna di Antonio Garcèa fu di avere sposato una donna colta. Attraverso di lei la sua storia è sopravvissuta, ed ancora gli eredi di quella coppia - lui morì nel 1878 - arricchiscono quella memoria con documenti d'archivio, scritti e ricerche».
«In quanto a me - conclude con modestia l'antropologo calabrese- forse non mi sarei dato a quest'impresa se non mi avesse stimolato la pubblicazione di un'altra donna colta di oggi, Angela Malandri, laureata in Lettere e Filosofia all'Università di Parma, con una tesi intitolata "Giovanna Bertòla e La Voce delle donne - 1994-95».