“Società liquida” è una fortunata metafora introdotta da Zygmunt Bauman nel dibattito sulla contemporaneità.
Indica il modo in cui i comportamenti umani tendono ad adattarsi
continuamente, come un liquido al contenitore, agli spazi che vengono
loro progressivamente lasciati, senza che sia possibile a quei
comportamenti consolidarsi in abitudini, in vite strutturate, in
identità stabili.
Ma in questa società che va verso la liquefazione, le immagini tendono
invece a prosciugarsi, a rinsecchirsi, a inaridirsi. E questa è un po’
meno una metafora.
Il processo di disidratazione, se parliamo di fotografie, è un fatto
fisico. Tecnologico. La camera oscura era umida: un antro di bottiglioni
bacinelle e lavandini. La camera illuminata del monitor è secca, anzi
idrofoba: il bagnato è nemico mortale dei circuiti integrati.
Mi ha colpito la preveggenza di Jeff Wall nel prevedere l’asciugatura
del procedimento fotografico quando era ancora lontana. Wall è un
artista, è lo scopritore della light box (la diapositiva applicata a una
scatola luminosa, arredo commerciale comune in ogni boutique di
provincia) come macchina concettuale, ma è anche un eccellente teorico.
L’ho scoperto nelle prime pagine di Gestus, una raccolta di suoi Scritti
sull’arte e la fotografia (un po’ disomogenea, ma merita di essere
letta), proposta da Quodlibet, un’editrice che sa scegliere bene i suoi
titoli.
Sentite cosa scrive Wall nel 1989, quasi un quarto di secolo fa, quando
la fotografia digitale balbettava e Internet era ignota ai più:
“[...] Questo arcaismo dell’acqua, della chimica liquida, connette la
fotografia al passato, al tempo, [...] l’eco dell’acqua nella fotografia
evoca la sua preistoria. [Con] i sistemi di informazione elettronica e
digitale [...] in fotografia si determinerà una ricollocazione
dell’acqua. L’acqua sparirà dall’immediatezza del processo di
produzione, svanendo nel più remoto orizzonte della produzione di
elettricità, e in quel momento la coscienza storica del medium ne sarà
alterata. Metaforicamente, vedo questa espansione della parte secca
della fotografia come una sorta di hybris dell’intelligenza tecnologica
ortodossa [...]“.
Il secco come condizione del tecnologico disumanizzato è un’angoscia che
percorre la storia delle disutopie letterarie e cinematografiche. Il
“cristallo pensante”, apoteosi della secchezza, è una figura mostruosa
della fantascienza, da Ballard a qualche recente Superman e Batman. Il
tasso d’umidità nell’organismo è il discrimine fra entità biologiche e
entità meccaniche. I robot classici conservano qualcosa di umano, come i
due partner di Guerre stellari, fino a quando nelle loro vene di
silicone scorre un po’ di lubrificante. Ma Hal9000 è un cervello
elettronico allo stato solido.
La fotocamera, pure, è tecnicamente un oggetto secco. Il suo cuore
vitale, la lente, è di cristallo. Ma in era analogica la fotografia
diventava umanamente apprezzabile grazie all’umido, all’acqua
”stabilizzata” delle gelatine ai sali d’argento, e poi ai successivi
bagni di acidi del laboratorio.
Ora questa immersione è stata accantonata e sostituita da procedure
integralmente disidratate. Wall, in modoun po’ simbolico un po’
sibillino, ci avverte: così la fotografia cambia. Come?
Il rinsecchimento delle fotografie non è solo una metafora un po’
scontata sulla qualità delle immagini contemporanee; è l’aspetto
visibile, carico di risonanze profonde, di una presa di possesso sempre
più imponente del territorio fotografico da parte della tecnologia
compatta, preordinata, non modificabile dall’utente.
Wall cita Solaris, grande film di Tarkowskij, dove faticosamente gli
esploratori spaziali si rendono conto che il pianeta liquido che stanno
esplorando è in realtà una gigantesca intelligenza che osserva loro.
Come è noto, nel film gli umani ormai in possesso (o posseduti) da
conoscenze tecnologiche raffinatissime finiscono per essere travolti e
governati dalla potenza silenziosa del grande mare. Rivincita mitica
dell’orga acquatico sul mecca minerale.
Nella realtà delle immagini tecnologiche, invece, finisce diversamente:
ormai le foto in umido sono state travolte da quelle asciutte. Eppure,
anche la tecnologia senz’acqua è un prodotto dell’uomo. Nei “cristalli
pensanti” delle nostre apparecchiature che (lo intuiamo, lo rifiutiamo,
continuiamo a temerlo) sono più sapienti di noi, c’è pur sempre un
pensiero umano.
Non siamo in un film di fantascienza, i robot non si stanno (ancora?)
ribellando. Dobbiamo solo riconoscere cosa è umano nell’apparentemente
disumano, ossia scoprire come riumidificare il secco.
Forse quelle che ci circondano oggi non sono immagini aride, sono solo immagini liofilizzate. Just add water.