A noi italiani piace associare Jeff Wall soprattutto all’immagine di una dozzina di soldati russi morti che ridono e scherzano tra le proprie budella esposte nel polveroso buco afghano dove li ha colti un attentato. L’atmosfera grottesca e surrealmente scanzonata di Dead Troops Talk, la gigantesca fotografia-lightbox venduta per 3,6 milioni di dollari nel 2012, ha consentito alla stampa di concentrarsi sul tema dell’arte-come-provocazione-e-scandalo e così Jeff Wall nell’immaginario nostrano è entrato a far parte di un Olimpo abitato tra gli altri da Cattelan, i fratelli Chapman e Damien Hirst. In realtà la sua fama è legata all’abbandono dello stile diretto e documentario da reportage, che era stato imposto dalle neoavanguardie contro la fotografia pittorialista, in favore di grandi tableau vivants dove ogni particolare è progettato e costruito come per un set cinematografico, e all’elaborazione di tecniche raffinatissime di montaggio digitale (le sue opere sono spesso il risultato della composizione di cento e più scatti diversi). I suoi scritti appena pubblicati da Quodlibet, in parte dedicati al proprio lavoro e in parte a quello di artisti passati e contemporanei, sono bombe di profondità. Jeff Wall è artista e intellettuale, ha studiato ossessivamente la teoria e la storia dell’arte e ha di persona intessuto le vicende dell’era concettuale e postconcettuale. Con rara densità racconta i passaggi cruciali tra l’originale “fotografia artistica”, quella di Stieglitz ma anche, più tardi, di Weston o Ansel Adams, e lo stile volontariamente antiformalistico e dilettantistico della fotografia adottato da Ruscha, Smithson, Nauman o Kosuth e finalizzato in ultima analisi a negare la rappresentazione, la bestia nera dell’avanguardia. Le pompe di benzina e i parcheggi vuoti californiani di Ruscha o le foto nello studio di Nauman sono pura decostruzione della tecnica e dell’immagine fotografica, la sua riduzione al concetto intellettuale di sé. Ma la fotografia è un medium che non può liberarsi della rappresentazione, e di conseguenza, conclude Wall, si è allontanata da quel fotoconcettualismo che «pur fallendo nel suo intento, ha comunque rivoluzionato il nostro concetto di immagine e creato le condizioni per la restaurazione di quel concetto come categoria centrale dell’arte contemporanea». Protagonista e pioniere di questa restaurazione, Wall ne descrive i meccanismi di produzione, i sistemi di riferimento culturali, il significato, in relazione al proprio lavoro e a quello altrui: di Roy Harden e Rodney Graham, suoi sodali nella cosiddetta “scuola di Vancouver”, di On Kawara, e sopra ogni altro di Dan Graham. La nuova immagine fissa dei gesti che non sono più, con ogni evidenza, quelli teatrali dell’epoca barocca, ma movimenti minuti e scarni, “involontariamente espressivi”, e crea paesaggi che, in linea teorica, discendono dall’archetipo del cimitero.