Per interrogarsi filosoficamente sul tempo, non basta solo
consultare i dotti volumi dei maestri: si deve anche andare al
cinema. Ne è convinto Gilles Deleuze, che
considera il cinema "moderno" un'attività filosofica, che sullo
schema esibisce il tempo come essenza spirituale sganciata da ogni
dimensione pratica. Grazie al cinema, l'uomo contemporaneo può avere
una comprensione non più solo intellettuale, ma anche "sensibile"
delle grandi questioni filosofiche. Nel volume Deleuze e i concetti
del cinema, Daniela Angelucci, nel compiere un'approfondita analisi
della filosofia del cinema di Deleuze in dieci concetti, fa emergere
la vocazione filosofica del cinema di "mettere in scena il
pensiero". «ln questo nuovo scenario la filosofia non considera
l'insieme dei film semplicemente un serbatoio di esempi narrativi
per avvalorare le sue riflessioni. Tra cinema e filosofia si
instaura invece un rapporto di radicale analogia, per cui si può
dire che entrambi si occupano, ognuno con i propri strumenti e mezzi
di espressione, degli stessi problemi».
Se per Bergson il cinema è «falso movimento», cioè insieme di
immagini statiche che solo nella ricostruzlone astratta riesce a
restituire allo spettatore il divenire della vita, per Deleuze, al
contrario, il cinema è essenzialmente fondato sul movimento, come
mostra la sua più piccola unità, il piano-sequenza. Rispetto a
quanto accade nel cinema "classico", in cui prevale la narrazione e
il tempo ha una dimensione rigorosamente cronologica subordinata al
movimento, per Deleuze nel cinema "modemo" è il movimento, invece, a
essere subordinato al tempo. Nell'«immagine-affezione» - il primo
piano - e nell'«immagine-cristallo», infatti, la durata temporale
smarrisce ogni senso, mentre a prevalere è la dimensione
dell'affettività, sicché il tempo realizza sullo schermo la kantiana
«forma pura dell'interiorità». È Orson Welles il genio che ha messo
la cinematografia al servizio della «liberazione del tempo in sé».
L'impiego del panfocus, che permette di mantenere a fuoco
contemporaneamente tutti gli elementi e i piani dell'inquadratura,
non è solo una innovazione tecnica introdotta dal regista per
ragioni puramente estetiche, è una strategia immaginifica per far
vivere sullo schermo una dimensione del tempo e dell'azione
sganciate da una precisa coerenza narrativa. Grazie al panfocus lo
spettatore è invitato a leggere l'azione su più piani, considerando
ugualmente importanti gli eventi che accadono sullo sfondo come
quelli in primo piano. ll che corrisponde a una rappresentazione
della vita quale insieme di eventi, di tempi, di memorie, di
versioni della medesima storia - come in Quarto potere -,
tutti validi e che accadono tutti contemporaneamente in una
dimensione spazio-temporale dilatata, labirintica, contraddittoria e
men che mai euclidea. Nel cinema, per usare le parole di Amleto, il
tempo esce «fuori dai cardini» e, abbandonando le narrazioni che lo
imbrigliano, assume la sua propria realtà.