Il nuovo edificio doveva sancire, secondo i committenti, il raggiunto
successo imprenditoriale Celebre fu la disputa tra facciata decorata,
voluta dalle autorità, e liscia, secondo lo stile dell'autore
Marco Pogacnik è uno storico dell'architettura con una passione per
Vienna e per i suoi architetti: della capitale asburgica ne conosce ogni
angolo e chi ne ha dato forma e immagine. Ne abbiamo avuto prova nel
catalogo della mostra romana su Adolf Loos (Galleria Nazionale d'Arte
Moderna, 2006) dove un suo saggio spiegava il debito dell'architettura
loosiana con quella che la precedette: i prodromi della modernità con
Otto Wagner e gli architetti della sua Scuola, la Vienna barocca
(Fischer von Erlach, Martinelli), il neoclassicismo e gli edifici
ottocenteschi della Ringstrasse. Adesso quel denso scritto inquadra la
sua recente monografia sull'opera più famosa dell'architetto viennese:
la casa sulla Michaelerplatz.
Non deve quindi trarre in errore il lettore il titolo del saggio Adolf
Loos e Vienna perché nonostante i necessari riferimenti, l'autore non ci
propone un itinerario dell'architettura loosiana nella capitale
austriaca, bensì come fecero prima di lui Hermann Czech e Wolfang
Mistelbauer con la loro Das Looshaus (Vienna, 1976) e poi Richard Bösel
(1991), un'approfondita indagine sul «controverso processo di
costruzione» che ha riguardato questo singolare edificio. Edito da
Quodlibet, il volume si differenzia dagli studi precedenti
per l'accurato e minuzioso scavo delle fonti dirette che hanno messo
meglio in luce non solo i complessi rapporti tra le diverse figure che
parteciparono all'esecuzione dell'edificio e il suo architetto, ma il
particolare ruolo che vi giocò la committenza e i funzionari pubblici
preposti all'approvazione delle numerose modifiche che la Looshaus subì
in corso d'opera.
Utilissimo, inoltre, è il corredo dei documenti - tra l'atlante dei
disegni e il repertorio fotografico - che ci fa comprendere l'evoluzione
articolata delle soluzioni architettoniche e che contraddistingue il
lavoro storiografico di Pogacnik da essere soddisfatti - parafrasando
Marco Pozzetto in occasione della scoperta di Otto Prutscher - che
provenga ancora dal nostro paese uno studio così diligente
sull'architettura viennese. Anche se sorvoleremo dei passaggi la storia
della casa sulla Michaelerplatz ha inizio quando verso la metà del 1909
Leopold Goldman e Emanuel Aufricht, titolari della sartoria Goldman
& Salatsch - affidano a Loos il progetto di un edificio residenziale
e commerciale, nel quale trasferire le loro attività. Proprio davanti
la porta urbana della Residenza imperiale, il nuovo edificio doveva
sancire, nelle intenzioni dei committenti, il loro raggiunto successo
imprenditoriale, merito dei loro impeccabili vestiti per una clientela
di nobili e ricchi borghesi, come testimoniano gli stemmi araldici in
bronzo posti sul fronte principale. Nel solco della tradizione è anche
l'idea di architettura che Loos immagina per la sede della prestigiosa
sartoria perché come lui stesso scrisse sulla rivista Der Architekt: «Ne
abbiamo abbastanza del genio originale! Ripetiamoci all'infinito! Che
un edificio sia simile all'altro!».
Per Loos, come ha bene rilevato Pogacnik, «attingere alla città come
fonte della propria architettura significa adottare un linguaggio
ampiamente condiviso» e solo chi non inventa arbitrariamente è un
«architetto-gentlemen».
Prima, però, del suo ingresso in scena, sono i proprietari ad avviare la
pratica per il nuovo allineamento edilizio e nel contempo invitare nove
architetti per un concorso d'idee che non darà però alcun vincitore e
sul quale resta il dubbio che fosse solo una scusa. Seria e molto
laboriosa fu, invece, la vicenda dell'inserimento urbano nel tessuto
edilizio preesistente con il conseguente esproprio delle aree da
destinare ad uso pubblico. Dai documenti d'archivio s'individuano i
protagonisti: da un lato l'ufficio tecnico comunale e dall'altro i
proprietari con l'architetto Ernst Epstein, incaricato di curare la
pratica di concessione edilizia oltre che assistere Loos e dirigere il
cantiere. Con dovizia di particolari e con lo scrupolo di ricostruire
l'iter urbanistico, Pogacnik ci fa comprendere il rigore al quale doveva
attenersi un architetto che operava nel tessuto edilizio viennese, ben
altro dall'«immagine musiliana di una burocrazia asburgica ottusa e
dispotica»; al contrario, attenta e consapevole della qualità del centro
storico che amministrava. Comprendiamo inoltre meglio le ragioni
dell'attivismo di Leopold Goldman diretto ad ottenere le migliori
condizioni economiche dal Comune attraverso la definizione delle sezioni
stradali e gli arretramenti del fronte dell'edificio sulla piazza che
determinavano il valore dell'esproprio. Loos riconoscerà essenziale
questa assidua partecipazione del suo cliente per le «illuminanti
trovate» e le «concrete invenzioni» mai venuta meno, soprattutto in
occasione della disputa cittadina sulla soluzione estetica della
facciata. È noto che la controversia per una facciata decorata come
richiedevano le autorità comunali e non liscia come desiderava Loos
costituisce da sempre l'elemento centrale della storia della Looshaus.
All'origine dell'aspro confronto ci sono una serie di «piccole
incongruenze» tra disegni approvati e nuove varianti che Pogacnik
ricostruisce con estrema precisione. Si comprende bene il ruolo di
mediazione e di regia che svolsero Goldman e Aufricht con, ad esempio,
la loro proposta di potere inserire in una seconda fase le decorazioni,
dopo la verifica sul reale effetto estetico che i prospetti disadorni
avrebbero avuto a confronto con lo zoccolo in marmo. È evidenziata,
inoltre, anche la parte delle cronache cittadine che informarono
puntualmente i viennesi dell'evolversi della vicenda tra le perplessità
della Residenza imperiale e le «rigidità» del Comune, che negò anche ciò
che in un primo tempo aveva approvato (una facciata intonacata a fasce
orizzontali «a meandro») preoccupato delle conseguenze politiche che la
discussione pubblica stava assumendo. Solo la tenacia e la pazienza
della committenza, abile nel muoversi tra i mancati adempimenti
dell'ufficio tecnico e disponibile a individuare soluzioni alternative
pur di non accettare una «decorazione posticcia», conseguirono il
risultato che avremmo ammirato.
Non è possibile descrivere tutte le varie astuzie messe in gioco da
Goldman e Aufricht nei confronti delle autorità se non l'ultima, quella
definitiva: la presentazione della facciata liscia abbellita con
ventisei fioriere in bronzo appese con dei grandi anelli al muro.
L'amministrazione certo non si arrese, ma in un gioco delle parti
contribuirono molti fattori, comprese le finte resistenze
dell'architetto Epstein che rifiutò di proseguire nel suo incarico e
quelle del fabbro che si oppose alla rimozione delle sue fiorire. Alla
fine, nel maggio del 1912, il compromesso si raggiunse con l'aggiunta di
quattro lampioni bronzei e l'impegno a tenere tutto l'anno piante vive
davanti le finestre.
Loos, contrariamente a quanto si è sempre tramandato nella storiografia
del moderno, non considerò la soluzione delle fioriere un ripiego. «Sono
disposto a sopportare - scrisse nel suo celebre scritto Ornamento e
delitto - gli ornamenti persino sul mio corpo, se fanno la gioia dei
miei simili». Non proprio di tutti se nel 1938 gli interni furono
distrutti dai nazisti attuando quelle minacce, che come scrisse Aldo
Rossi, la vecchia cultura asburgica seppe solo proferire sulla carta
stampata. La casa nella Michaelerplatz sopravvisse, però, agli eventi
tragici della guerra e Loos accusato di essersi reso «colpevole di un
delitto» riconosciuto pari ai suoi «vecchi maestri viennesi» come sempre
aveva desiderato.