Recensioni / La vera fotografia è una citazione

Non senza understatement, Jeff Wall dice di sé: «Penso che tutto ciò che faccio possa facilmente essere compreso come fotografia». È davvero così? Certo, Wall è un fotografo. Ma è anche uno scenografo, un pittore, un regista. Una sorta di maestro rinascimentale precipitato nella postmodemità. Invitato alla Documenta di Kassel e alla Biennale di Venezia, protagonista di una grande retrospettiva al Moma di New York nel 2007, oggi è tra gli artisti più apprezzati e quotati a livello internazionale. E, tuttavia, è difficile perimetrarne l'azione. La sua forza, paradossalmente, ri-
siede proprio nel suo essere plurale e indefinibile.
Di queste ambiguità parliamo in una conversazione in esclusiva per «la Lettura», che muove da due importanti occasioni italiane. La prima personale in uno spazio espositivo istituzionale nel nostro Paese: da marzo al Pac di Milano (a cura di Francesco Bonami). E la pubblicazione di Gestus, la prima antologia dei saggi sull'arte e la fotogtafia. Commentando questi saggi, Wall dichiara: «Il mio scrivere non ha un collegamento diretto con il mio mestiere. Ma, nei miei articoli, mi soffermo sui medesimi valori estetici che si possono ritrovare nella mia pratica. Tendo a non separare il mio giudizio sul lavoro di altre persone dal giudizio su ciò che faccio».
Dunque, chi è Wall? ll creatore di uno stile ibrido, il cui intento consiste, potremmo dire con Rosalind Krauss, nella «reinvenzione dei media» tradizionali. Analogamente a William Kentridge, si appropria di linguaggi diversi - fotografia, cinema, pittura - e li pone in relazione tra loro. Fa entrare in collisione i «margini» dei vari codici, approdando a esiti inattesi. Afferma: «Credo di non aver inventato niente. Del resto, in arte, non si inventa mai niente».
Eppure, è evidente il desiderio di spingersi verso inesplorati territori di confine. Una necessità che si impone sin dal 1999. Wall è su un pullman, in viaggio da Barcellona a Londra. Resta colpito da un'insegna retroilluminata: «Non si tratta di fotografie, di cinema, né di pubblicità, ma ha una forte associazione con tutto questo», spiegherà l'artista canadese, il quale, dopo quell'episodio, si dedicherà alla produzione di quello che è diventato il suo ciclo più famoso: i light box. Strutture tratte dall'architettura commerciale statunitense: ovvero, transparencies di grandi dimensioni. All'intemo di queste comici, Wall ordina una complessa drammaturgia, ricca di rimandi a varie fonti. Innanzitutto, per lui, è indispensabile il recupero della tradizione del reportage. Che, dice, «è una caratteristica centrale e permanente nella fotografia». L'mmagine, per lui, deve non esibirsi come guscio vuoto, ma custodire sempre un valore testimoniale. Distante da ogni gioco tautologico, attribuisce un'assoluta centralità al dialogo con il reale, che coglie nella sua immediatezza. Stabilisce un vincolo stretto con le forme del mondo. Ogni suo scatto recupera materiali di vita. Aedo del senza-valore, dell'anonimo, del periferico, offre porzioni di esistenze marginali. Ritrae personaggi che indossano abiti miseri, abbandonati in non-luoghi anonimi e grigi.
Diversamente dagli eredi di Walker Evans, però, Wall non si limita a documentare. Il suo obiettivo consiste, potremmo dire con Greenberg, nell'utilizzare «metodi caratteristici di una disciplina per caratterizzare la stessa, non per sovvertirla, bensì per rafforzarla con maggiore decisione nella sua area di competenza». Sceglie, perciò, di impaginare il visibile: lo plasma, lo modella. ln particolare, ricorre ad alcuni trucchi cinematografici. Predilige il lavoro in studio. Dapprima, allestisce set. Calcola mises en scène. Abile regista, dispone oggetti eterogenei e attori vari. Poi, scatta. In questo modo, estrae dalla cronaca i suoi eroi minori, e li carica di allegorie. Compone tableaux vivants, nei quali incontriamo protagonisti che, pur radicati in una squallida quotidianità, evocano tematiche legate alla sfera del mito: la partenza degli Argonauti, il ritorno del figliol prodigo. Per effettuare questi slittamenti simbolici, Wall si affida ad alcuni stratagemmi filmici: «ll cinema è un campo aperto, nel quale si possono accostare momenti di reportage con passaggi di totale artificio e con sequenze oniriche. Ma la cinematografia indica soprattutto un metodo per definire i singoli fotogrammi».
Memore della lezione di Hitchcock e Antonioni, Wall riprende il reale, e lo rimodula. Lo sceneggia. E lo congela. Lo sospende. Lo ripone in un alveo metafisico. Infine, lo monumentalizza. Come accade nei suoi affreschi postmodemi. Da un lato, il gusto per la bigness tipicamente statunitense; dall'altro, il riferimento alla ritrattistica occidentale. Confessando le sue ragioni, Wall dice: «Mi piace la sensazione che deriva dall'esperienza del vedere fotografie che abbiano le medesime proporzioni dei capolavori della storia della pittura fino al XIV secolo. ll mondo ha imparato a guardare se stesso attraverso i dipinti di Giotto, Raffaello, Piero della Francesca, Velázquez e Rembrandt. Nel Medioevo e nel Rinascimento, c'era una somiglianza immediata tra il modo in cui le cose apparivano nelle immagini e il modo in cui le immagini apparivano nello spazio esterno. Decisiva, per me, è stata anche l'impressione suscitata dalla dilatazione dei volti proiettati sul grande schermo del cinema».
Per afferrare il senso di questa ricerca potremmo ritornare all'epilogo del libro-testamento di Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, lucida riflessione sulla spettacolarizzazione del male. La scrittrice si sofferma su Dead Troops Talk di Wall. Un imponente cibachrome alto due metri e mezzo e largo più di quattro, montato su un cassonetto luminoso, «esemplare per forza e profondità». Vi appaiono militari russi in uniformi invernali e alti stivali, sparpagliati su un pendio, crivellato di sassi e di rifiuti del conflitto avvenuto. Sembrano individui. Ma sono morti. E mostrano un «supremo disinteresse per i vivi». Un reportage drammatico? Piuttosto, un grido d'accusa contro la guerra. Siamo all'«antitesi di un documento». Perché Wall non è mai stato in Afghanistan. Ma, sulle orme di Goya, ha ricostruito sapientemente nel suo atelier l'orrore della guerra. E, richiamandosi ai tableaux vivants e ai gabinetti delle cere dell'Ottocento, ha spettacolarizzato una vicenda storica, fino a pervenire a un «sorprendente e inquietante» verismo. I personaggi di questa e di altre opere visionarie di Wall, osserva la Sontag, «sono realistici, ma naturalmente l'immagine non lo è».