Recensioni / Agire sugli spazi pubblici, tra usi spontanei, tempi sociali e partecipazione

Il libro Qui è ora restituisce le relazioni presentate al convegno internazionale (Torino 14-15 marzo 2011) a valle di un progetto sperimentale della Città di Torino e della Fondazione Compagnia di San Paolo denominato +spazio+tempo, presentato nella prima parte del libro, per metterlo a confronto con politiche ed esperienze sviluppate altrove - articolate nell’ampia seconda parte - dove si discute sul ruolo e sulla progettazione degli spazi pubblici e della città spontanea, con una forte attenzione agli usi quotidiani; e, a conclusione, si riapre un dibattito sopito nell’ultimo quinquennio che mette «al centro dell’azione pubblica il valore del tempo» (Cordoni, p. 151).
La stessa collocazione nella collana Città e paesaggio dell’editore Quodlibet è significativa perché offre un contesto sostantivo a quest’ultimo tema dei tempi urbani, nella letteratura per il progetto urbanistico e architettonico sensibile anche a temi sociali. Qui è ora è quindi un volume a molte voci, provenienti da ambiti professionali e istituzionali diversi, ma corale, all’unisono e senza dissonanze, anche quando gli argomenti e i relatori si muovono su binari paralleli, non necessariamente dialoganti o esplicitamente interrelati.
Ritengo siano tre i temi e le argomentazioni chiave del volume: il primo è relativo a un’interpretazione e a un trattamento dello spazio pubblico che privilegia come esso venga o verrà praticato nel concreto e nel tempo della vita quotidiana. Un secondo tema riguarda le politiche temporali urbane, dove si presentano esperienze di contaminazione delle politiche urbanistiche poco discusse nella letteratura, allargando il dibattito tra contesto italiano e francese. L’ultimo riprende l’esperienza recente di politiche temporali e spaziali della città di Torino.
I. SPAZIO PUBBLICO COME PALCOSCENICO DI PRATICHE
Lo spazio pubblico è «inteso nel senso non metaforico di parti di città che hanno un uso e in genere sono di proprietà collettiva» (Bocco, p. 9), ma - e questo è uno degli assunti di partenza del testo - il cui uso è stato fortemente limitato dal progetto razionalista votato allo zoning e alla monofunzionalità esasperata, contraddittoriamente secondo gli autori rispetto alla natura propria di luoghi principe della socialità e per la qualità della vita.
Anche il continuo esercizio pianificatorio che norma l’uso degli spazi persevera in un atteggiamento regolativo e sanzionatorio che «si scontra con gli usi e gli interessi che nello spazio pubblico della città si generano», così «nella città contemporanea tutto è molto definito, ciascuno dovrebbe sapere qual è il suo posto» (Curti, p. 23) e si creano così conflitti d’uso quando non si è al proprio posto (e ciò non riguarda solo situazioni di marginalità). Normandolo si da luogo ad una “dedicazione” dello spazio pubblico? Come agire invece per renderlo più facilmente fruibile a molti in diversi momenti? Due sembrano essere le risposte qui messe in campo.
Un prima è suggerita dal capitolo «Uno spazio per la diversità nella vita urbana» introdotto dal saggio di Karen A. Franck che descrive la varietà della vita nello spazio pubblico urbano, ciò che vi accade e vi è accolto, una grande varietà di attività dinamiche e sedentarie dal commercio informale, al tempo libero e ludico per pochi minuti o per molte ore, in orari stabiliti o spontanei, dalla produzione (in spazi dismessi o per community garden), alla commemorazione e all’espressione spesso di dissenso [1] o come abitazione temporanea in aree marginali.
Si tratti di un’analisi dei comportamenti sociali, o per dirla altrimenti di pratiche sociali d’uso dello spazio pubblico in prevalenza aperto. E’ una osservazione e restituzione della città spontanea e informale che può essere favorita qualora vi sia una gestione attenta rispetto a regolamenti e loro applicazione. Alcuni urbanisti, quali Margaret Crawford, sostengono tale opportunità della progettazione urbana per piccoli innesti temporanei e di piccola scala; si tratta di una «urbanistica del quotidiano» quale «approccio incrementale, che opera piccoli cambiamenti che si accumulano fino a trasformare ampie situazioni urbane» (Franck, p. 82).
A questo saggio sono affiancate schede di esperienze internazionali di uso temporaneo di spazi pubblici [2] e da una rassegna di esperienze torinesi di attivazione di strutture socioculturali polifunzionali di quartiere, a gestione pubblico-privata, [3] dove associazioni e singoli fanno vivere uno spazio collettivo, cercando di ottemperare ad una sostenibilità sociale e (in parte) economica.
Una seconda risposta è offerta dal capitolo «Il progetto democratico dello spazio pubblico» che punta l’interesse sulle formule partecipative che intercettano nuove competenze professionali al progetto, che dal manufatto fisico si riversano alla costruzione di un processo, attente ad accogliere la spontaneità degli abitanti. È qui che si danno esperienze diverse di «agenzie spaziali» (Schneider, p. 125) con il mandato di enti locali o frutto della strutturazione dell’insorgere di istanze locali autonome. Sono caratterizzate dal farsi parte attiva [4] in grado di intervenire nella produzione dello spazio. Propongono una formula partecipativa specifica che ritorna sovente nel testo e nei progetti di rigenerazione urbana torinese dell’ultimo ventennio e che cerca radici teoriche nel saggio di Tatjana Schneider.
In modo sottile e discreto, ma non troppo velato, il testo così mette in campo un superamento dei confini della professione dell’architetto come autorità autonoma, affidandogli maggiori competenze rispetto alla vita nello spazio pubblico e alla città spontanea e di gestione dello spazio oltre al sua modificazione fisica.
II. ESPERIENZE EUROPPE DI POLITICHE TEMPORALI URBANE
Il volume offre una rassegna di quanto accaduto in due regioni, in due città italiane e una francese in materia di tempi, orari e spazi urbani.
A livello regionale l’interesse è rivolto verso una ricognizione sintetica dell’adeguamento normativo (l. 53/2000) da parte dei comuni nella predisposizione dei piani territoriali degli orari. Grazie al sostegno pluriennale regionale, in Lombardia oltre ad aver introdotto criteri di accessibilità, fruibilità e cittadinanza in diversi strumenti di programmazione della città (dai piani dei servizi ai piani del commercio), 130 comuni hanno approvato un piano degli orari ed hanno realizzato politiche specifiche; [5] mentre dal 1997 al 2009 in Piemonte174 comuni si sono dotati del piano, ma solo 14 ne hanno avviato un progetto attuativo.
A livello comunale l’interesse è rivolto ad esperienze, per la verità limitate sia in Italia sia in UE, di politiche temporali urbane che agiscono nella pianificazione territoriale. E’ l’analogia con l’esperienza torinese a dettarne i criteri di scelta. Così la Città di Massa restituisce come il tempo è una componente del piano urbanistico, per cui vi è un obbligo di legge regionale, ma senza particolare caratterizzazione. Mentre a Bergamo è una espressa volontà quella di collocare l’Ufficio tempi comunale e il Piano territoriale degli orari come parte della pianificazione territoriale, dove sviluppare sia azioni integrate di gestione spazio-temporale, sia fornire un contributo ideativo al Piano di governo del territorio e alla concretizzazione in termini anche qualitativi delle dotazioni di servizi.
Il caso francese è invece restituito attraverso la presentazione della rete Tempo Territorial. [6] In specifico a Digione, prima città in Francia, i «concetti temporali devono inscriversi nella progettazione urbanistica» (Trouwborst, p. 145). Non si tratta né di una progettazione ad hoc, né di politica pubblica tematica e specifica. Si riconoscono invece caratteri temporali nelle pratiche di pianificazione e gestione urbana, sia in formule generiche quali la «città evolutiva», sia in azioni specifiche e coerenti. [7] Così, integrare il tempo come una risorsa allo stesso titolo dello spazio, dell’acqua e dell’energia, è rendere la città più ospitale e piacevole da vivere. Rimarcando in tal modo l’interesse torinese che propone come lavorare insieme su spazio e tempo sia una forma di azione che consenta di mobilitare stratagemmi per il miglioramento della qualità della vita.
III. L'ESPERIENZA TORINESE DI PROGETTO SULLO SPAZIO E SUL TEMPO URBANI
Il libro rende conto di un lavoro che allinea l’esperienza di questa città con il contesto italiano in materia di politiche temporali urbane, che tradizionalmente nei suoi casi di eccellenza ha agito proprio per progetti pilota locali su orari, servizi e talvolta sugli assetti fisici dei luoghi.
Mentre Torino nella letteratura sulla materia era la città delle ricerche di avanguardia sull’uso dei tempi urbani [8], il progetto +spazio+tempo in tre anni attiva sperimentazioni locali e un loro incrementale allargamento ad aree urbane differenti, [9] implementando politiche integrate e azioni «per il miglioramento della qualità e dell’uso dello spazio pubblico e per una gestione innovativa del tempo sociale». Nello specifico per: ridurre i conflitti nell’uso degli spazi pubblici tra generazioni, gruppi e persone singole; migliorare la conciliazione dei ritmi di vita delle persone, riducendo il tempo per accedere ai servizi pubblici e alle pratiche burocratiche; radicare la partecipazione e farla diventare una consuetudine.
Si sono realizzati interventi riguardanti: il mercato (internet assistito, bibliomigra), il commercio (luogo sicuro, cicloconsegne), l’anagrafe (spazio di attesa, prolungamento degli orari di apertura), le scuole (nonni civici e cortili riprogettati), la banca del tempo, lo spazio pubblico (Zona Franca e negoziazione partecipata per scrivere regole d’uso e progettare gli spazi) cercando di risolvere conflitti d’uso sociale dello spazio pubblico.
L’idea è favorire «politiche per un nuovo modello di welfare, basato sulle opportunità invece che sui servizi» che significa una «centralità delle politiche per target di beneficiari ma di carattere territoriale (…) Più che “assistere” il territorio, il progetto ha mirato a sollecitare e attivare le risorse che questo offre (…) stimolare e accogliere interventi inattesi, non predefiniti». Come dichiarano gli autori vi è un disequilibrio tra azioni sullo spazio e sul tempo a favore del primo, ciò perché il tempo è «un carattere immateriale e trasversale (ai diversi ambiti della vita umana, ai diversi settori dell’amministrazione pubblica), e pertanto più difficile da declinare in azioni specifiche».
Che cosa accomuna e allinea l’esperienza torinese con il filone dei progetti locali di politiche temporali urbane maggiormente praticati dai comuni soprattutto del Nord Italia?
Innanzitutto, a parere di chi scrive non si è solo «lavorato sui tempi di un territorio e dei suoi abitanti e non sugli orari dei servizi”, come afferma Marta Levi (p. 21). Piuttosto si è lavorato su entrambi gli aspetti, cioè sia sul versante istituzionalizzato degli accordi sociali sui tempi, gli orari, sia sulla costruzione di nuove consuetudini temporali (e dei modi) d’uso di spazi e servizi da parte degli abitanti, i tempi.
Inoltre, l’impianto di governance del progetto e i risultati di processo attesi e raggiunti ricalcano i modi della coprogettazione, [10] dove al cuore sono la cooperazione e il superamento dell’organizzazione gerarchica e settoriale verso una approccio trasversale e integrato. [11]
A conclusione si ricorda che anche questo libro solleva un interrogativo generale sulla diffusione delle pratiche di intervento a scala urbana. A fronte di un grande sforzo europeo per la promozione degli scambi di best practice esse continuano a diffondersi solo per comunità intercomunicanti auto-selettive e la ricerca-azione è settoriale, e avviene per vicinanza tra i ricercatori piuttosto che per ambiti tematici omologhi.

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