Da quando il mio barbiere storico ha chiuso i battenti dopo
cinquant’anni di gloriosa carriera, non sono più riuscito ad andare
nello stesso posto più di due volte. In una di queste occasioni mi sono
imbattuto in un ragazzo piuttosto giovane e a prima vista intraprendente
che, con la loquacità tipica di tutti i barbieri (o parrucchieri:
qualcuno si offende, e anche il nostro si offese quando lo chiamai
barbiere), dopo aver snocciolato tutti i luoghi comuni e il sarcasmo su
politica, meteorologia e società malata, mi chiese: «Ma tu che lavoro
fai?». Domanda normale se non fosse per una mia deformazione, o innata
riservatezza trasmessami da mio padre, che mi spinge a non raccontare
mai che cosa faccio, di che cosa mi occupo, che lavoro facciano i miei
genitori. Spesso, per eludere la domanda, invento mestieri nuovi, a
volte medico, altre impiegato di banca, altre ancora archeologo, e così
via.
Tornando al nostro barbiere/parrucchiere, dopo qualche mugugno di
circostanza da parte mia, le sue insistenze si fecero tali che dovetti
cedere. Confessai così a mezza bocca: «Sono architetto».
La reazione fu inaspettata: il viso si illuminò e apparve un sorriso che
fino a quel momento era stato nascosto dal cipiglio con cui osservava
la mia testa: «Ma allora si può dire che siamo colleghi! In fondo
anch’io con la mia arte creo qualcosa che prima non c’era».
Rimasi ammutolito per lo strano paragone e contrariato dal fatto che sia
opinione diffusa paragonare l’architettura all’arte, alla creazione.
Tutte le mie ideologie razionaliste e socialiste sull’architettura e
sulla sua funzione sociale erano state demolite in una battuta.
Questo episodio mi è tornato alla mente leggendo la raccolta di scritti
di Giancarlo De Carlo Viaggi in Grecia, edita da Quodlibet nel 2010. Tra
questi, un incontro con un barbiere di un paesino greco presso il quale
la moglie di De Carlo, Giuliana, decide di farsi tagliare i capelli.
Mi sono un po’ vergognato della mia superficialità, nel leggere e
rileggere questo aneddoto in cui De Carlo osserva con ammirazione il
lavoro del barbiere e lo mette in relazione con i complessi rapporti
spazio-temporali esistenti nella piazza su cui si affaccia la bottega.
Non solo: l’episodio diventa spunto per una breve riflessione sulla
necessità di fare e insegnare la progettazione in aderenza alle
relazioni tra le parti, per sconvolgerle con fantasia e immaginazione e
poi ricomporle, ma sempre mantenendo il contatto con lo scopo per cui si
progetta.
In realtà, anche se gli scritti coprono un arco temporale di oltre
trent’anni, si può affermare che il filo logico della riflessione di De
Carlo sia assolutamente lineare (nella sua complessità). L’interesse
per ogni forma di architettura, per tutto ciò che “fa” architettura, per
tutte le componenti che entrano nel gioco dell’architettura, siano esse
il tempio di Bassae o il barbiere di Pilos, rappresenta l’humus su cui
si fonda la ricerca di De Carlo, che non riguarda solo l’architettura
costruita, ma anche quella insegnata e divulgata attraverso i numerosi
scritti e soprattutto attraverso la rivista «Spazio e Società». È stata
questa una delle poche riviste “libere” di architettura in cui, oltre ai
preziosi editoriali di Giancarlo, si potevano leggere e conoscere
progetti e architetti impresentabili per l’accademia. Accademico egli
stesso, De Carlo ha saputo cogliere al meglio tutte le contraddizioni
dell’università italiana (e non solo) dal dopoguerra ad oggi, attuando
una critica serrata delle istituzioni preposte all’istruzione e fornendo
una chiave di lettura diversa e anticonformista della architettura e
del suo insegnamento in Italia.
Anche di questo si parla nella raccolta di scritti sui viaggi in Grecia;
in particolare, uno spunto molto interessante e che merita senz’altro
un approfondimento per l’attualità del tema si trova nelle pagine
intitolate Maestri e pedagoghi (pp. 86-88). In questo scritto, De Carlo
svolge un’analisi dello “stato di fatto” piuttosto precisa (non
aggiornata all’oggi, ma al momento in cui scrive; in seguito e ai giorni
nostri la situazione è molto peggiorata) su ciò che è diventata la
scuola e quindi anche l’università in Italia. Ciò che stupisce e che
merita appunto di essere approfondito, è la conclusione, una previsione
che diventa quasi una profezia (o un auspicio) su ciò che potrà essere
in futuro la scuola e lo spazio in cui si esercita l’insegnamento.
Come quest’ultimo, molti altri scritti di questo volume sono inediti;
alcuni sono apparsi su «Spazio e Società» e in altre raccolte. In essi
ritroviamo tutti i temi cari a De Carlo e altri spunti interessanti di
riflessione. Sullo sfondo, la Grecia che entra in ogni argomento del
racconto e diventa una sorta di quinta scenografica sulla quale si
svolge il racconto dell’architettura.
E infatti di questo si tratta: di ricondurre ogni espressione
architettonica alle persone, agli eventi, in una parola al contesto
(ovvero alla/e società) che l’hanno generata nel corso del tempo e che
l’architetto osserva, registra, metabolizza e traduce in una nuova
espressione architettonica. L’architettura come specchio della società e
non come imposizione dall’alto necessaria al miglioramento della
società, secondo l’illusione – o la falsa coscienza – di molti
architetti più o meno contemporanei.
Il messaggio di De Carlo induce a invertire i termini della questione:
non si tratta di migliorare la società attraverso l’architettura, ma di
analizzare profondamente la società e ciò che essa produce, di
individuare i suoi processi di mutamento includendo fra essi anche
l’architettura a tutte le scale, dal dettaglio all’urbanistica; infine
di realizzare architettura che risponda allo scopo per cui viene
richiesta dalla società e alle esigenze reali delle comunità che la
compongono.
Se ancora si pubblicano e vengono letti gli scritti di Giancarlo De Carlo abbiamo buoni motivi per essere fiduciosi.