Nella pratica didattica, così come nella percezione critica, Verga è
stato spesso implicitamente considerato uno scrittore postumo; non a
sé stesso, ma al rapporto di organico allineamento che avrebbe
orientato lo sviluppo del romanzo italiano, modellandolo sui tempi e
gli eventi dell'0ttocento risorgimentale. I capolavori verghiani,
cioè, coinciderebbero con la crisi della sintonia tra valori
letterari e valori politici, e mostrerebbero come le magnifiche e
provvidenziali sorti dell'Italia unita s'infrangano contro la realtà
di una nazione socialmente, economicamente e linguisticamente
disunita.
Se la storiografia recente, tornata sui temi risorgimentali
specialmente in occasione del 150° anniversario dell'unità, ha fatto
giustizia di molti stereotipi, negli studi letterari resiste invece
una rappresentazione un po' troppo rigida, desanctisiana, della
dinamica tra progresso e crisi, afermazione ed esaurimento. Questo
tenace apriori ha catalizzato la ricezione delle opere di
Verga, che a quella fase storica ha dato voce e corpo attraverso i
suoi personaggi, e le ha bloccate in un angolo storico senza sfondo.
Non è intervenuta cioè, se non in modo molto parziale, la dinamica
del moderno che presuppone il superamento del modello da parte di
ogni esperienza artistica successiva; Verga, in altre parole, non
apparterrebbe più al sistema di valori espresso dagli autori che
l'hanno preceduto, ma rimarrebbe irrimediabilmente al di qua della
soglia (tecnica ed estetica, più che cronologica) del Novecento. È
la cosiddetta «barriera del naturalismo»,
che secondo Renato Barilli separerebbe l'Ottocento dalla compiuta
modernità: Zola da Proust, Verga da Pirandello.
Di conseguenza, anche le caratteristiche più originali dello stile e
dei temi verghiani sono state per lo più definite non in positivo,
quali affermazioni di modalità nuove o rinnovate, capaci di durare
oltre il passaggio di secolo; ma in negativo, come punti di frattura
rispetto a un'ipotetica norma, fatta coincidere magari con un
modello manzoniano a sua volta semplificato e cristallizzato. Si è
insistito per esempio, complice una lettura pregiudiziale delle
dichiarazioni di poetica dello stesso autore, più sul concetto di
“assenza del narratore verista, che non sullo statuto originale assunto da quell'istanza narrativa. ll paradosso,
spesso inavvertito, e che contro questa barriera continua ad
apparire inevitabile, e anzi opportuno, urtare, se si vuole provare
a scalarla e a scollinare nel Novecento. Dopo Manzoni infatti,
rimossa la romanzeria storica a lui variamente ispirata e messo
Nievo tra parentesi con qualche senso di colpa, le sorti scolastiche
della narrativa ottocentesco si affidano ancora oggi tutte a Vita
dei campi e alle Rusticane, a I Malavoglia e a
Mastro-don Gesualdo.
Sarà forse per questo intreccio contraddittorio che Verga, come
accadrebbe a un parente ricco ma attempato, torna utile nei momenti
di difficoltà e viene trascurato nei periodi spensierati.
Ogniqualvolra in Italia c'è da saggiare un paradigma critico, Verga
viene infatti rimesso al centro dell'attenzione: così è successo per
gli studi d'impostazione ideologica, così per quelli di taglio
formalistico-strutturale, prodotti - per citare solo alcuni dei nomi
più canonici - da Spitzer e Devoto, Asor Rosa e Guglielmi, Luperini
e Mazzacurali, e ancora Baldi, Bigazzi, Tellini. Poi, esaurite le
spinte propositive, Verga passa un po' di moda e viene abbandonato
alla polvere di compilazioni localistiche e stantie. La critica
verghiana ha avuto ancora un periodo di splendore fin verso la fine
degli anni novanta; dopo, un silenzio protmratto per un tempo
abbastanza lungo (interrotto solo sporadicamente da titoli notevoli,
tra cui il Verga moderno di Luperini, pubblicato nel 2005, anche se composto da saggi precedenti). Per questo merita di
essere segnalata con speciale attenzione l'uscita nel 2012 di almeno
due volumi verghiani finalmente significativi. Può darsi che sia solo
una coincidenza, o forse l'effetto di una sorta di «funzione Verga»
che si riattiva nei periodi di crisi di coscienza collettiva, com'è
quello in cui si dibatte l'Italia contemporanea (è stato proprio
Luperini a individuare il legame tra la fortuna di Verga e la
presenza di una «forte tensione teorica e anche ideale e politica»).
Ma questo risveglio editoriale potrebbe anche significare che un
nuovo paradigma interpretativo è alle porte.
Se non nuovo, di certo inedito in Italia è uno dei principali
sostegni narratologici su cui si basa il saggio di Alessio Baldini,
Dipingere coi colori adatti. I Malavoglia e il romanzo moderno
(Quodlibet, pp. 192, € 20,00), cioè la teoria del racconto
dell'austriaco Franz K. Stanzel. ll modello di Stanzel (elaborato in
studi come Theorie des Erzählens, 1979, che attende ancora
una versione italiana, supplita per il momento dalla meritoria
sintesi che ne dà il recente volume di Paolo Giovannetti, Il
racconto (Carocci, 2012), superando alcune rigidità del paradigma
strutturalista, permette di ragionare non più nei termini schematici
di presenza/assenza del narratore, bensì in quelli più duttili di
«situazione narrativa». La situazione che Stanzel defi-
nisce «figurale», ad esempio, ben si attaglia all'impersonalità dei
Malavoglia verghiani e aiuta a individuare e correggere un
equivoco che ha viziato il dibattito critico: l'eclissi dell'autore,
osserva infatti Baldini, non esprime «il tentativo di costruire una
narrazione oggettiva», ma tende al contrario a «mostrare che la
narrativa è un medium opaco», costruito non sull'assenza ma
sul conflitto dei punti di vista.
Se il libro di Baldini ha il merito di far reagire una proposta
teorica covincente con l'analisi sistematica del romanzo verghiano
(di cui vengono messi in valore temi e personaggi di solito lasciati
in ombra, come Mena, sul cui carattere complesso, inquieto anche se
emotivamente «distonico», il critico scrive pagine efficaci), il
Verga di Pierluigi Pellini (il Mulino, pp. 181, € 15,00) individua e precisa il legame dello scrittore siciliano da un lato con il
moderno - abbattendo definitvamente la fragile «barriera del
naturalismo» - dall'altro con i francesi: Flaubert e soprattutto
Zola, di cui Pellini ha curato di recente i romanzi nei «Meridiani».
L'idea che il verismo possa rientrare nei confini del modernismo,
già sostenuta da Pellini nei suoi saggi precedenti, ha influenzato
gli assunti di base dello studio dello stesso Baldini. Qui la
genealogia viene ulteriormente modulata, sulla base dell'evoluzione
(o dell'involuzione) dei risultati narrativi di Verga. Basterebbe
valutare l'importanza della posta letteraria in gioco per intuire
come l'apparenza discreta del profilo introduttivo (genere di cui
esibisce la chiarezza espositiva) non renda piena giustizia a un
libro come quello di Pellini, che è di fatto un vero studio
monografico, ricco di approfondimenti originali, sia sul piano
filologico (le peculiarità della variantistica verghiana) e
stilistico (le critiche all'idea spitzeriana del «coro di
parlanti»), sia su quello interpretativo. Emergono infatti, in
queste pagine, prospettive acute tanto sul rapporto tra il percorso
dell'ideologia di Verga e la sua lucidità realistica, quanto
sull'attrito tra i residui di un'estetica già esausta (la divisione
degli stili, che inceppa la stesura dei Vinti) e il flusso
orientato verso la «migliore letteratura del Novecento italiano», che, per bocca di Pirandello, ha riconosciuto la
propria «discendenza verghiana (e antidannunziana)».