Ecco un itinerario che sarebbe difficile trovare in trasmissioni
televisive e in riviste di viaggio. E non tanto per quel migliaio di
polverosi chilometri tra laghi salati, altopiani terrosi e montagne
impervie che si attraversano viaggiando da Gibuti (capitale di uno stato
che domina lo stretto tra il Mar Rosso e il Golfo di Aden) verso Addis
Abeba (una delle metropoli più elevate del mondo) passando per Harar
(uno dei più antichi mercati del continente africano, quello dove Arthur
Rimbaud cercò fortuna ma trovò malattia e morte). Fatto col
fuoristrada, cercando di seguire il tracciato di una ferrovia che non
esiste più, tra camion ruggenti in un calore che squaglia, e costellato
di incontri strani e curiosi, il percorso ha un profilo abbastanza
avventuroso che non sfigurerebbe in quelle situazioni di
intrattenimento.
Il viaggio che si racconta e documenta in questo volume, Narciso nelle
colonie. Un altro viaggio in Etiopia (Macerata-Milano,
Quodlibet-Humboldt, 2013), può dirsi un ibrido, perché composto da
materiale vario: un racconto di Vincenzo Latronico, che sta tra il
saggio e il diario, da un reportage di belle foto a colori di Armin
Linke, e da una lunga appendice di contenuti addizionali che contiene
una memoria di Angelo Del Boca, celebre storico delle colonie, un album
fotografico sulla mitologia di Hailé Selassié, una storia dell'icona del
negus a cura di Simone Bertuzzi, e infine un dizionarietto sulla
permanenza di parole italiane nella lingua amarica a cura di Graziano
Savà.
Pur rappresentando bene la sua inevitabile e goduta dimensione
chilometrica e paesaggistica ed esotica, questo insieme di contributi,
quasi opera collettiva, ha un rapporto più diretto con il tema della
memoria post coloniale. Non è sbagliato partire dal presupposto, come si
legge in questo libro, che gli italiani abbiano, in genere, un
difficile rapporto con il passato.
Si può anzi dire che dimenticano facile, se si muovono nelle scelte che
riguardano l'attualità, e che rimuovono volentieri, se si tratta di
seppellire qualche ricordo traumatico o magari anche vergognoso. È
successo con la seconda guerra mondiale, con il fascismo, con gli anni
di piombo; accadde con il colonialismo ed è accaduto con alcuni capitoli
poco gloriosi della più recente missione in Somalia. Questo libro può
almeno essere un esercizio per imparare a considerare questo genere di
traumi.
Il turista post colonialista è stretto e quasi ossessionato da due
paure. La prima è quella di guardare, capire, vivere e ricordare i
luoghi che visita con i soli propri occhi, quelli del detestabile
occidentale, che crede di capire, crede anche di sentire, ma applica
metri e criteri che non hanno nessun preciso fondamento nelle culture e
tanto meno nella vita materiale delle genti che incontra. Una condanna a
essere testimone a senso unico, capace solo di sollecitare il proprio
gruppo culturale, soprattutto incapace di comunicargli qualcosa di
davvero nuovo. Questa paura è connessa all'idea che ogni elaborazione
dell'esperienza diventi una semplice cronaca di ciò che l'uomo
occidentale prova davanti al diverso e all'esotico.
La seconda paura è quella di non riuscire a raccontare la propria
esperienza senza ricalcare le forme e gli stili della più tipica e trita
letteratura di viaggio. Anche questa è una paura dell'identità, della
propria. Non solo l'angoscia di appartenere a un gruppo che pensa e
comunica secondo schemi e schermi resistenti e cocciuti; anche la
delusione di rimanere chiuso nella banalità di un genere pesa
sull'apertura dell'immaginazione. Nessuno vorrebbe diventare,
desiderando in realtà l'opposto, il triste artefice di una scrittura che
è per definizione ripetizione, recita, cliché. Questa è la paura del
narratore che, per quanto si sforzi, teme di non riuscire a inventare
nuovi lettori e teme ancor di più di rimanere contento d'essere riuscito
a intercettare, almeno, quelli più facili da soddisfare.
Per più versi, la proposta narrativa che produce questa confezione di
diversi contributi cerca di esorcizzare queste assennate paure. A volte,
trattando con umorismo le motivazioni sentimentali di questo viaggio. È
il caso delle pagine di Latronico, che intesse l'esperienza del viaggio
con una personale indagine sulla sua famiglia e sulle memorie
domestiche; la madre bambina che lascia l'Etiopia, la nonna materna che
tramite le sue memorie romanzate è testimone del definitivo declino di
quel colonialismo tradizionale; le tessere sparse e non sempre
combacianti di quel passato, tra ferrovie sgangherate in disuso,
architetture che ricordano l'Italia, luoghi e cose e persone ormai
superstiti solo in polverosi archivi.
Dimensioni personalistiche che si intrecciano con obbiettivi politici e
culturali, quali gli effetti della globalizzazione oltre la soglia delle
culture post coloniali e il ruolo che la narrazione, qui un po'
camuffata in quel genere non fiction che è il racconto di viaggio,
svolge nella costruzione delle immagini collettive. Il tutto sembra
riguardare, infine, l'interferenza tra storia, informazione e finzione,
temi che qui riaffiorano in un vagheggiato contatto con le cose, con i
luoghi, con il deserto, con il cielo. Tutte buone ragioni per mettersi
in viaggio.