Con la libertà di parola del romanziere, Giorgio Bassani aveva già detto molto, quasi tutto. Nel 1962, immaginando la tomba ferrarese dei Finzi-Contini, aveva detto le manie di grandezza funeraria che colsero gli ebrei italiani all'indomani dell'Unità, nel tempo felice seguìto all'Emancipazione: «La tomba era grande, massiccia, davvero imponente: una specie di tempio tra l'antico e l'orientale, come se ne vedeva nelle scenografie dell'Aida e del Nabucco in voga nei nostri teatri d'opera fino a pochi anni fa». «Ne era venuto fuori un incredibile pasticcio in cui confluivano gli echi architettonici del mausoleo di Teodorico di Ravenna, dei templi egizi di Luxor, del barocco romano, e persino, come palesavano le tozze colonne del peristilio, della Grecia arcaica di Cnosso». Bassani aveva detto, anche, il degrado sorprendentemente rapido di cappelle come quella dei Finzi-Contini, un degrado risalente già al primo dopoguerra: precedente la rovina delle famiglie israelite dopo le leggi razziali del 1938 e l'occupazione tedesca del 1943, precedente la distruzione degli ebrei di Ferrara come d'Italia e d'Europa...