Il modo migliore affinché un viaggio non si concluda è raccontarlo. È
una tecnica elementare e originaria, individuale e sociale,
duttilissima. Raccontare un viaggio significa prolungarlo nel tempo,
traslocarlo da uno spazio a un altro: far sì che quanto è stato cammino,
lavorio del corpo, attraversamento di meridiani, attenzione precisa o
blanda al macroe al micropaesaggio, si converta in un altro codice, per
esempio in un serpente di frasi, in un pannello di scatti fotografici. Narciso nelle colonie. Un altro viaggio in Etiopia - di Vincenzo
Latronico e Armin Linke, ma anche di Angelo Del Boca, Simone Bertuzzi e
Graziano Savà - è il primo titolo di Humboldt, una nuova iniziativa
editoriale realizzata in coedizione con Quodlibet. Un progetto che nel
connettere narrazione, fotografia e documentazione legge il viaggio in
una chiave letteraria e artistica. In una prospettiva simile
l'itinerario geografico è prima di tutto l'occasione per mescolare
autobiografia e sensorialità, memoria e imprevisto, così da trasformare
spazio e tempo in visione.
Lo spunto da cui frasi e fotografie traggono origine è «un'eroica
ferrovia iniziata a fine Ottocento e mai del tutto completata, sempre
rammendata un attimo troppo tardi, sempre sull'orlo del
malfunzionamento, e attualmente dismessa». Un antenato russo di
Latronico ne aveva cofinanziato la prima costruzione; seguire quella
linea ferroviaria vuol dire dunque muoversi lungo un ramo sensibile del
proprio albero genealogico. Com'è inevitabile (se non indispensabile)
accada, il viaggio programmato deve scendere a patti con tutti gli
accidenti del caso e riconoscere che a dominare il percorso è la
serendipità.
Tra un lago di latte e gli ennesimi masticatori di chat - l'oppiaceo più
diffuso ed esportato del Corno d'Africa -, la striscia del binario si
disperde nella polvere. Al suo posto appaiono percezioni e
consapevolezze inedite: i babbuini e gli alberi viola lungo la strada
per Harar, gli elefanti rintracciabili col GPS, le vestigia di Hailé
Selassié, il microscopico re dei re (al quale, nella sezione dossier,
Del Boca dedica un ricordo che ne restituisce la fragilità e la
contraddittorietà);e ancora Enrico, una pasticceria italiana che espone
un unico vassoio di pasticcini, la visita alla casa di Arthur Rimbaud,
dove in realtà Rimbaud non visse mai, nonché l'intensità feroce con cui
l'industria cinese si sta impossessando del mercato etiope.
Alla fine l'oggetto reale di un libro come questo è sì il viaggio,
l'Etiopia, ma soprattutto il prendere coscienza del proprio sguardo
occidentale, delle sue risorse e dei suoi limiti. Allora lo spazioe il
tempo attraversati diventano dispositivi che nel sollecitare, di questo
sguardo, il lavoro descrittivo lo inducono al contempo a riflettere
autocriticamente su se stesso. Su ciò che vede, su come lo vede, sulla
natura (e sulla cultura) delle sue diottrie; sulle sue paure ma anche
sul coraggio di una percezione che non si presume neutrale.