Recensioni / Jeff Wall, il "ladro" di realtà

La fotografia contemporanea ruba come una gazza ladra, soprattutto quello che si fa specchio del nostro presente. Si chiama «Actuality» la prima retrospettiva di Jeff Wall in Italia, il fotografo di Vancouver, nato nel 1946, che ha influenzato generazioni di artisti dopo di lui e che ha costruito il suo modus operandi prendendo a prestito dai nidi disciplinari altrui tutto ciò che poteva.
Il curatore della mostra al Pac di Milano, Francesco Bonami, sottolinea la sua capacità di descrivere la realtà urbana moderna, la stessa che fu di molti cantori, in parole e in immagini, di Parigi come prima città-problema: un posto molto divertente, ma dove mille novità nello svolgersi della vita quotidiana comportarono anche le difficoltà di adattamento a una nuova etica e a un modo inedito di convivere.
L'inversione del ritmo giorno-notte grazie all'illuminazione artificiale, la relatività dei comportamenti accettabili dato il coacervo di razze, lingue e costumi, la strada diventata teatro per il passaggio di sconosciuti e non più luogo di incontro tra gente nota, la casa come rifugio da questa indifferenza, ma a volte invece come capsula di tragica solitudine: questo e altro connota da un paio di secoli le dinamiche di chi vive in città, quelle appunto che Wall descrive secondo una tradizione già lunga; nelle sue immagini sembra di poter leggere il realismo che fu di Emile Zola, della pittura di Courbet ma anche di Caillebotte, della prima fotografia capace di non mettere in posa i propri soggetti e invece di lasciarli vivere nei loro movimenti abituali.
E qui sta il paradosso, perché chiunque apprezzi e conosca il lavoro di questo cantastorie maniacale sa che il suo mondo non ha nulla di spontaneo. A incominciare dalla presentazione, spesso risolta con la tecnica del light box che serve a illuminare l'immagine: l'idea di una scatola luminosa che, come uno schermo, porta la luce sull'immagine da dietro, è stata tratta da certi dispositivi per la pubblicità stradale, ma è stata condotta da Jeff Wall a una perfezione che evita ogni alterazione di intensità, ogni effetto di vibrazione dei neon, persino, a volte, la consapevolezza che l'immagine non sia solo stampata molto bene su carta glossy.
E comunque il punto non sta solamente qui, dal momento che Wall mette sempre, inesorabilmente, in posa i suoi soggetti. Che si tratti di un uomo che a casa sua, in cucina, tra mobili degli anni Cinquanta ed elettrodomestici free-standing, giace sotto il suo tavolo appena dopo l'invasione di ladri o comunque dopo una sparatoria. Che si tratti di una sposa orientale che ripone qualcosa in un cassetto. Che si vedano ragazzi di fronte a un club in attesa silente di iniziare una notte di chiasso e oblio. Che si riconosca, ancora, il padiglione Barcellona di Mies van der Rohe mentre nessuno lo visita, bellissimo, con le sue superfici di marmo che trattengono i movimenti delle rocce sedimentarie e le poltrone che segnano uno degli apici del design, ma che al contempo vive il suo stesso risveglio mattutino quando un addetto alle pulizie lo ritrasforma in se stesso, un tempio devoto alla sottrazione che non sopporta e non contempla sporcizia.
Wall è uno di quei fotografi che hanno fatto disperare molti colleghi, perché è riuscito a entrare nella dinamica commerciale della pittura e ha posizionato le sue opere in un raggio di quotazioni molto alte. Lui stesso si considera un pittore, termine ormai così largo da significare abbastanza poco ma sempre scelto per il suo tono evocativo.
Però è vero. Il suo modo di comporre le opere non è affatto debitore del reportage, del gusto dell'istantanea, del gioco di chi ama l'attimo e lo eterna. Lui l'attimo lo inventa.
Costituisce le sue storie a partire da un pensiero ipotetico, da un'idea di ciò che potrebbe accadere e spesso accade. Impiega mesi a creare la giusta scenografia, con un concerto di costumi, di luci e di attori che sono gli stessi elementi con i quali si gira un film: rispetto alla cinematografia, mancano solo i dialoghi. Anche lo sbuffo di latte in Milk, una delle sue prime immagini note, era stato calcolato al millimetro. Niente è lasciato al caso, tutto è costruito con un metodo colto e consapevole della distanza tra la fotografia e la pittura, che lo stesso Jeff Wall ora descrive in un libro curato in anni di lavoro da Stefano Graziani e appena uscito.
Sta in questo l'arte del furto di Jeff Wall, che ruba a tutte le discipline possibili - letteratura, pittura, cinematografia e via dicendo - gli stratagemmi del realismo.
È stato anche tra i primi a utilizzare i metodi di correzione dell'immagine fotografica messi a disposizione dai programmi digitali, stando però molto attento a non esagerare mai: nulla delle deformazioni che impone alle luci e talvolta alla scena appare in maniera chiara. L'architettura statica di Ignazio Gardella al Pac ci aiuta a cogliere il perfezionismo, la pulizia, la chiarezza di idee e di esecuzione che sta dietro ogni immagine. L'unico indizio che abbiamo di un parto così lungo e premeditato sta nella staticità che Wall comunica anche nella resa del movimento.
Nulla scappa a una griglia di proporzioni tra forme e colori. Non c'è imprevisto nemmeno quando c'è enigma: a ben guardare, per esempio, la fotografia scattata nella cucina potrebbe raccontare soltanto di un uomo solo in preda a una crisi di panico, che teme l'irruzione di una violenza più interiore che proveniente dall'esterno.
l fotografi che hanno seguito questo metodo sono molti e in molti modi, da Cindy Sherman a Philip Lorca di Corcia, da Thomas Struth ad Andreas Gursky. La giovane fotografa milanese Giovanna Silva attiverà un workshop per mostrare il sistema-Wall. Questa fotografia si distingue soprattutto per gli aspetti di composizione e progettazione dell'immagine, che non hanno nulla a che fare con la filosofia di un Robert Capa (andare il più possibile vicino agli eventi veri) o in generale di coloro che assumono l'atteggiamento del testimone oculare.
Il furto massimo, infatti, è quello della nostra buona fede: crediamo di vedere una cosa e invece stiamo guardandone un'altra. La migliore risposta possibile a Baudelaire, che credeva di poter condannare i fotografi in quanto tecnici che non inventano niente. Qui, dentro la finzione radicale, misuriamo quanta realtà ci sta nel "come se".