Recensioni / Viaggio sul treno che non c'è

Vincenzo Latronico e Armin Linke sono rispettivamente uno scrittore e un'artista. Nel febbraio 2012 sono partiti insieme per un viaggio in Etiopia che è durato tre settimane e diventato l'oggetto (anche per peso specifico) di Narciso nelle colonie. Un altro viaggio in Etiopia. Non so, loro non lo dicono, perché abbiano deciso di farlo insieme, questo viaggio, ma a ritroso, a lettura finita e ripassate le loro biografie, un paio di ipotesi mi sento di azzardarle. La prima è che sembrano condividere una passione per l'archeologia del presente. La seconda è che per quanto utilizzino strumenti diversi per raccontare il mondo, entrambi sono più che abili a manipolare il linguaggio dell'altro: Latronico sa come costruire immagini con le parole, e Linke come usare le immagini per narrare delle storie. Il risultato è un libro in cui il testo non è didascalia e le fotografie non sono illustrazioni.
Non sappiamo perché abbiano deciso di partire insieme ma sappiamo (questo lo
raccontano) perché, singolarmente, abbiano deciso di farlo. E a dirla tutta, le idee che avevano in testa erano un po' confuse. Saranno i primi ad ammetterlo, con un'onestà disarmante che è proprio bella. Ma andiamo con ordine. Latronico ha una complicata genealogia familiare, che fa scendere le sue origini dalla Russia fino appunto, all'Etiopia. Essendo uno scrittore (per qualche ragione gli scrittori hanno spesso questa necessità), vuole cercare le sue radici; o almeno, in subordine, dare una faccia ai luoghi che stanno dietro le quinte dei racconti di famiglia. Tanto per
non creare inutile suspence , dico subito che non troverà né i luoghi né le radici. Linke è appassionato di architettura. Non quella patinata delle archistar, quella fragile e sbilenca su cui si è costruito (o smantellato, dipende dai punti di vista) il paesaggio contemporaneo: casermoni, strade, palazzi corrosi ancor prima di essere terminati. E cosa c'è di meglio, per chi ha di queste passioni, che mettersi sulle tracce di fatiscenti costruzioni coloniali?
L'ipotesi è di partire da Gibuti e arrivare ad Addis Abeba utilizzando la ferrovia. Peccato che la ferrovia non ci sia. O meglio, non è che proprio non ci sia: ci sonoi treni, le stazioni, gli ingegneri, il personale. Quello che manca, il Godot della situazione, sono i binari. Tutti dicono che tra otto mesi la linea sarà ripristinata, tutti sanno che non è vero. Intanto aspettano. Per non rischiare di perdere il lavoro, gli operai si sono accampati addirittura lì, intorno alle stazioni: mangiano, dormono e aspettano. Questa non è l'unica cosa a spiazzare i nostri viaggiatori. La seconda è che fanno in fretta a rendersi como che i loro sguardi hanno sbagliato allenamento (tutti prima di partire alleniamo i nostri occhi a vedere cose che non conosciamo). Non che fossero stati ingenui: sapevano di non dover cadere nella trappola del pittoresco, così come si erano preparati all'imbarazzo implicito di fare turismo in un luogo che era stato colonia del paese da cui venivano.
A conti fatti, non gli resta che adeguarsi al ritmo del nuovo viaggio, che a questo punto è davvero un viaggio nell'ignoto. Lo fanno, con l'eleganza e la maestria che può avere solo chi decide di mettersi al servizio deill'altrove: guardarlo, e raccontarlo, sapendo che comunque vada finiranno per raccontare se stessi. Ma sapendo anche che quel "se stessi" è destinato a cambiare un tanto al chilometro.
Cosa vedono? Un sacco di cose che non sono quelle che sembrano. Per esempio, il deserto non è mai deserto. Per esempio, la casa di Rimbaud (ragione per la quale hanno fatto una deviazione fino ad Harar), non è la casa di Rimbaud. Per esempio, il buffet della stazione esiste e si mangia pure bene, sebbene non ci sia più la stazione. Per esempio, Faccetta nera è una canzonetta che gli anziani intonano con allegria. E soprattutto vedono un paese imprigionato in una sorta di eterna attesa del progresso, in cui l'occidente, come il treno, sta sempre per arrivare, ma intanto è latente.