È un viaggio nella storia di un luogo sacro che in lingua ebraica si
chiama Beit ha-chayim, la casa dei viventi, il libro di
Andrea Morpurgo “Il cimitero ebraico in Italia”, edito da Quodlibet.
Un saggio che oscilla tra la ricostruzione storica e l’analisi
architettonica, e che - rispetto alle ricerche del passato, dedicate
alle specifiche realtà locali - va a colmare una lacuna
storiografica presentando per la prima volta uno studio comparativo inserito in
una prospettiva temporale.
«La storia dei cimiteri ebraici - spiega infatti Morpurgo, storico
di architettura e urbanistica - cambia radicalmente con la
post-emancipazione, cioè la novità introdotta dopo l’Unità d’Italia,
nel 1861, che ufficializza l’uguaglianza di tutti i cittadini di
fronte alla legge, senza distinzione di culto. In pochi anni la
condizione giuridica di quelli che vengono chiamati “Israeliti”
italiani, migliora sensibilmente. Dai piccoli cimiteri autonomi
extra muros, definiti spegiativamente ortacci e campacci, dove si
seppellivano i giudei, si passa alla realizzazione di aree vicino ai
cimiteri comunali o con sezioni israelitiche all’interno degli stessi».
È il caso di Bologna. Le cronache antiche riportano che i martiri
cristiani Vitale e Agricola, nel 393, vengono gettati con disprezzo
tra le sepolture degli ebrei. E che secoli dopo, nel 1593,
a seguito della Bolla di espulsione di papa Clemente VIII, le ossa
dei defunti israeliti vengono portate a Pieve di Cento. Solo sulle
baionette di Napoleone, nel 1796, gli ebrei poterono tornare
in città. L’esigenza di un luogo di culto e di sepoltura per la comunità, che allora era di circa 300 persone, porta alla
realizzazione del cimitero ebraico dentro la Certosa, nel 1869.
A Ferrara, dove la comunità è più forte nei primi del ‘900, sotto la
guida dell’ingegnere Ciro Contini si realizza un monumentale portale
in granito all’ingresso del cimitero di via delle Vigne.
Il libro di Morpurgo descrive ampiamente il dibattito sulla ricerca
di uno stile “giudaico”. In mancanza di precisi modelli di
riferimento, l’auto-rappresentazione delle comunità si esplicò nell’utilizzo di apparati decorativi “esotici”, per garantire
un’immediata riconoscibilità come luoghi non cristiani. «Possiamo
affermare che ritualità funebre, modalità di sepoltura e il susseguirsi delle circostanze storiche hanno generato un’originale
grammatica dello spazio di sepoltura ebraico».
Il Bet ha-chayimè la porta verso la vita eterna, la
disposizione dei defunti è rivolta ad est: al momento del risveglio,
ciascuno risorgerà con il volto verso Gerusalemme.
Un capitolo del libro affronta pure il tema delle profanazioni:
dagli assalti veri e propri ai funerali, all’uso di lapidi sottratte
per utilizzarle poi nei cimiteri cristiani. Così il volume, che
nella parte finale riporta una dettagliata mappa di tutti i cimiteri
ebraici italiani (in Emilia, oltre a Bologna e Ferrara, a Modena,
Carpi, Cento, Correggio, Finale Emilia e altri), diventa pure un modo per riannodare le vicende di un popolo, che anche nel riposo
eterno trovò lungo la storia diffidenza, emarginazione e
ghettizzazione.