“Non so niente di cinema” si intitola il primo capitolo di questo bel
libro di Vito Santoro dedicato ai rapporti tra Italo Calvino e l’ottava
musa. Ma, ovviamente, non è vero. Dalle sue molte opere, in particolare
da quelle saggistiche, è possibile ricostruire un suo rapporto
privilegiato con alcuni aspetti del cinema italiano (in particolare, con
la produzione di Michelangelo Antonioni) e con l’estetica del cinema
nello specifico della sua scrittura.
Nelle tre sezioni in cui è composto il libro, Santoro esamina in prima
istanza Calvino come “spettatore” e la sua autobiografia dal punto di
vista dell’importanza del cinema nella sua formazione di uomo o di
scrittore, poi passa a esaminare la sua produzione di critico
cinematografico e di Presidente della Giuria del Festival di Venezia nel
1981, infine in Dalla pagina allo schermo ricostruisce dettagliatamente
tutte le trascrizioni sul grande e piccolo schermo di opere letterarie
dello scrittore. A che conclusioni arriva il saggio di Santoro?
Che Calvino, pur essendo stato appassionato di cinema da bambino, non ha
un grandissimo patrimonio cinematografico alle spalle (come la maggior
parte dei cinéphiles), che qualche articolo di critica cinematografica
lo ha scritto (tra la rivista “Cinema nuovo”, “La Repubblica” e
“L’Unità”) ma senza un particolare accanimento produttivo in questa
attività e che pochi suoi testi narrativi (in realtà quasi tutti
racconto e un solo romanzo, Il cavaliere inesistente) sono stati portati
sullo schermo cinematografico e televisivo. Se ne dedurrebbe un
interesse “tiepido” per il cinema da parte dello scrittore e una
sostanziale difficoltà se non idiosincrasia nei confronti della
trasformazione in immagini delle sue produzioni letterarie.
Anche questo, altrettanto ovviamente, non è vero. Il rapporto di Calvino
con il cinema è profondo (anche se non espresso in maniera precisa ed
estesa) e investe la necessità stessa della sua scrittura.
In un breve saggio scritto in occasione degli ottanta anni di Eugenio
Montale, Calvino arriva a paragonare la poesia (montaliana ma non solo)
al cinema e la sua evocazione del mondo come un’accensione di immagini
su uno schermo. Il commento di Santoro è efficace e netto:
«Dunque, per Calvino, la lettura di una poesia e la visione di un film
sono due esperienze che implicano l’immersione in un mondo di immagini
che solo concettualmente ha un creatore che le provoca e un fruitore che
le riceve. In realtà in entrambi i casi si assiste al coinvolgimento in
una specie di gioco collettivo fatto di rimandi concatenati tra loro,
dove si ricevono e si ri-creano sensazioni, come i cristalli nel vortice
di un caleidoscopio. In altre parole, attraverso il cinema e la poesia
si possono suscitare immagini già viste sotto una diversa angolazione,
cioè si può “vedere di più”, penetrare così a fondo nelle cose fino a
trasfigurarle e pervenire ad un effetto di irrealtà. E secondo questa
traiettoria si sviluppa la parabola del signor Palomar».
Palomar, uscito nel 1983 e che porta come titolo la designazione del
grande telescopio americano situato nella San Diego County, sarà, non a
caso, l’ultimo romanzo pubblicato dallo scrittore; in esso la teoria
della visione assurgerà a supremo telos della narrazione.
Il cinema, dunque, sembra sempre aver affascinato Calvino che lo
considerava, forse, come una sorta di punto di riferimento teorico
definito via via nel corso dello sviluppo della sua carriera di
scrittore, confluendo alla fine in una dimensione di “ideale regolativo”
che sarebbe sfociato nell’aspirazione alla visibilità delle sue ultime
opere. E proprio alla visibilità, come viene descritta in una delle
Lezioni americanedel 1985, per l’esattezza la quarta, che bisognerà
rifarsi per comprenderne la specificità e la fondamentale importanza per
la poetica calviniana.
Il fatto è che, nonostante la letteratura e il cinema puntino entrambi
alla realizzazione di immagini per il lettore /spettatore, i
procedimenti che utilizzano sono inversi. La letteratura passa
attraverso immagini mentali per giungere alla parola scritta, il cinema
parte da un testo scritto (il trattamento, la sceneggiatura) per
concludere in un’immagine vera e propria, fatta di elementi della realtà
che si propongono come “altra realtà”, “struttura che vuole essere
un’altra struttura”. Scrive Calvino: «Possiamo distinguere due tipi di
processi immaginativi: quello che parte dalla parola e arriva
all’immagine visiva e quello che parte dall’immagine visiva e arriva
all’espressione verbale. Il primo processo è quello che avviene
normalmente nella lettura: leggiamo per esempio una scena di romanzo o
il reportage di un avvenimento sul giornale, e a seconda della maggiore o
minore efficacia del testo siamo portati a vedere la scena come se si
svolgesse davanti ai nostri occhi, o almeno frammenti e dettagli della
scena che affiorano dall’indistinto. Nel cinema l’immagine che vediamo
sullo schermo era passata anch’essa attraverso un testo scritto, poi era
stata “vista” mentalmente dal regista, poi ricostruita nella sua
fisicità sul set, per essere definitivamente fissata nei fotogrammi del
film».
La scrittura è, di conseguenza, solo la prima fase di un film; in esso
confluiscono i passaggi successivi relativi alle riprese, il montaggio e
il taglio relativo delle scene, ivi comprese quelle rifiutate dal
regista in questa fase. Questo aspetto spiega, peraltro, la difficoltà
di Calvino ad accettare per Einaudi la pubblicazione di libri composti
da sceneggiature, sia pure di grandi registi (Santoro analizza bene e
insiste accortamente su questo aspetto alle pp. 17-20 del suo saggio).
Eppure del cinema non si può più fare a meno, sosterrà in un altro suo testo esemplare lo scrittore:
«Certo, dobbiamo dire che l’evidenza di verità che il cinema proietta
così facilmente su volti e ambienti è illusoria, che sotto i proiettori
del cinema ogni verità si trasforma presto in maniera, in retorica, in
menzogna. Se il cinema restringe molto il campo del romanzo non è perché
in qualche modo lo valga, ma perché dove passa il cinema non può più
crescere un filo d’erba. Ancora tanti scrittori insistono nello scrivere
romanzi in concorrenza con i film: e non raggiungono che risultati
poetici minimi. Ambienti, personaggi, situazioni che il cinema ha fatto
propri non possono più essere accostati dalla letteratura: come se
fossero stati rosi all’interno dalle termiti, appena gli s‘avvicina la
mano non ne resta che polvere».
Del cinema cercherà, tuttavia, di fare il miglior uso possibile nella
scrittura tersa e limpida come uno specchio che riflette una realtà
immaginata e riverberata a più riprese quale è quella che costituisce il
“realismo fantastico” delle sue storie.
Santoro ricostruisce inoltre in maniera assai esauriente il rapporto di
Calvino con il cinema sia riferendo delle sue passioni filmiche (la
stagione americana del “cinema classico” negli anni Trenta e Quaranta,
il suo amore per Charlie Chaplin, il grande rispetto per quel film
“immenso” che è 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick e la
negazione dell’importanza dell’interpretazione di Marlon Brando in
Apocalypse now di Francis Ford Coppola) sia attraverso le riduzione per
il grande e piccolo schermo di sue opere narrative.
Ma queste ultime non sono certo molte e non sono peraltro
particolarmente significative se si eccettua il delizioso Cavaliere
inesistente reso per immagini animate da Pino Zac nel 1969 e il buon
Marcovaldo di Giuseppe Bennati del 1970, dove l’eroe eponimo delle
mirabolanti e bizzarre storie della raccolta di storie fu reso
emblematicamente da Nanni Loy, allora famosissimo per le sue Candid
Camera in TV. Certo Francesco Maselli si è sforzato di rendere il mondo
del fotografo Paraggi nel suo L’avventura di un fotografo (girato per la
RAI nel 1983) e Alan Taylor ha trasportato in America situazioni e
personaggi di Calvino in Palookaville, termine mediato da Fronte del
porto di Elia Kazan, girato nel 1995: in esso predominano, tuttavia, più
i toni della “commedia all’italiana” con la sua paradossalità e i suoi
umori un po’ amarognoli che la ricerca dell’”immagine visiva” dello
scrittore italiano (i racconti portati sullo schermo sono Furto in una
pasticceria – che pare abbia ispirato anche I soliti ignoti di Mario
Monicelli del 1959, Letto di passaggio e Desiderio in novembre). Quello
che riscatta il film di Taylor, comunque, è l’interpretazione di Frances
McDormannd, nel ruolo di June, prostituta dal cuore d’oro e
dall’infinita pazienza.
Nel ricostruire un rapporto apparentemente così marginale nell’opera di
un grande scrittore come Calvino come quello con il cinema, Santoro
compie l’opera meritoria di individuare in essa una chiave di lettura
della sua produzione letteraria che altrimenti avrebbe rischiato di
rimanere inadeguatamente esplorata.