Per alcune settimane le città greche sono state messe sottosopra da una
rivolta che ha coinvolto decine di migliaia di giovani uomini e donne.
E' noto che il fatto scatenante è stata l'uccisione di un adolescente,
Alexis, da parte delle polizia. Ma poi la rivolta ha rotto gli argini,
mettendo a nudo una realtà fatta di una scuola pubblica in via di veloce
privatizzazione e di disoccupazione con percentuali a due cifre. I
media mainstream hanno individuato come capri espiatori anarchici e
black bloc.
Solo quando il fuoco che ha distrutto banche, concessionari di
automobili e supermercati ha cominciato a spegnersi, le parole usate per
condannare la rivolta hanno lasciato il posto a analisi più ponderate,
cercando di capire la rapidità della diffusione della rivolta e il
consenso che ha avuto. Mike Davis, che di riots ne ha visti almeno due a
Los Angeles, ha messo l'accento sulla particolarità dei fatti greci
rispetto a quanto accaduto alcuni anni fa nelle banlieue francesi. Se
nei quartieri periferici di Parigi i rivoltosi volevano farla finita con
l'atteggiamento razzista della polizia nei confronti dei giovani di
origine magrebina o della Martinica, ad Atene e Salonicco le
manifestazioni di protesta svelavano una condizione sociale costellata
di studenti universitari che non credono più alla favola che
l'università' sia il passaporto per un lavoro ben pagato e gratificante e
di giovani delle periferie che sono tenuti ai margini di una piena
cittadinanza. Ma quello che Mike Davis coglieva nel suo intervento
pubblicato da questo giornale lo scorso 19 dicembre e' l'assenza di
futuro che la crisi del neoliberismo rende manifesta. Da qui una
consapevolezza politica che rende la rivolta greca differente da quella
delle banlieues francesi.
Sono indubbie le differenze, ma forti sono anche le ripetizioni. Una su
tutte, la consapevolezza dell'assenza di futuro, che costituisce il filo
rosso che lega sia le mobilitazione francesi contro il "contratto di
primo impiego" nel 2006, i riots francesi, l'"onda anomala" italiana di
questo autunno e la rivolta greca.
Per capire come questi movimenti investano le istituzioni della
"democrazia reale" arriva nelle librerie italiane il volume di Robert
Castel, La discriminazione negativa (Quodlibet, pp. 143, euro 16),
saggio che lo studioso francese ha dedicato alle sommosse nelle banlieue
francesi di tre inverni fa.
Robert Castel è un attento studioso della realtà francese a partire
dalle trasformazioni istituzionali che hanno accompagnato l'affermarsi e
il declino politico del lavoro salariato. In questo saggio offre una
lettura della genesi dei quartieri "a rischio", da quando cioè il
governo di Parigi del primo dopoguerra lanciò un ambizioso progetto di
edilizia popolare per la classe operaia. I quartieri e le piccole città
che nacquero dovevano garantire quel diritto alla casa che il movimento
operaio francese rivendicava come un diritto sociale alla cittadinanza.
Ma quello che gli architetti e le istituzioni politiche francesi non
avevano previsto e' quel confine invisibile che divideva quei quartieri
dal resto della città. Le banlieue costituirono e costituiscono una
sorta di "urbanistica della segregazione sociale". Chi vi abitava e'
posto oltre i confini della democrazia. E quando i quartieri periferici
delle metropoli francesi sono diventati lo spazio urbano per i migranti e
i loro figli, alle banlieue sono stati applicate politiche di stampo
coloniale; e da cittadini gli abitanti sono stati sempre più trattati
come "indigeni". Quando i giovani si rivoltano nel 2005 la posta in
gioco e' diventata immediatamente politica, perché veniva rivendicata la
piena cittadinanza, cancellando così quei feroci seppur invisibili
confini interni della democrazia. Il saggio di Castel ha il suo maggiore
interesse laddove sottolinea come la "democrazia reale" definisca
sempre le norme dell'inclusione e dell'esclusione dall'esercizio della
cittadinanza, che in Europa, e in misura diversa negli Stati Uniti, non
significa solo l'esercizio dei diritti civili e politici ma anche quelli
sociali. E di come la definizione, per usare una fortunata espressione
di Etienne Balibar, dei confini della democrazia sia una conseguenza dei
conflitti sociali e di classe che caratterizzano il capitalismo. Da qui
la rilevanza del concetto di integrazione selettiva proposto da Castel.
In altri termini, il capitalismo non prevede l'esclusione, ma precise
norme per stabilire l'inclusione. Per i giovani delle banlieue è
l'accettazione della precarietà nei rapporti di lavoro a cui
corrispondono salari più bassi, una limitazione della mobilità sociale e
un ferreo controllo sulla loro libertà di movimento all'interno delle
metropoli. L'"onda anomala" italiana lo ha invece individuato nella
trasformazione della formazione in una fabbrica che produce precari.
Allo stesso tempo, leggendo i pochi testi e documenti prodotti durante
la rivolta greca, l'inclusione selettiva e' individuata nell'operato
delle istituzioni del controllo sociale che agiscono nella "democrazia
reale".
Il saggio di Castel invita a un coraggioso riformismo che riprenda la
strada dell'universalismo dei diritti sociali. Una prospettiva di cui
dovrebbero fare tesoro gli esponenti politici di ciò che ancora viene
chiamato sinistra. Ai movimenti sociali, invece, tocca l'aspro terreno
di una "politica senza soggetto", cioè quell'agire politico che
consideri la condizione di studente o di "indigeno" due facce di una
stessa medaglia, quella che rifiuta una precarietà che condanna a una
esistenza coatta nella gabbia del lavoro salariato.