È il compiacimento dell'artificio a informare le modulazioni ed i
racconti fotografici, in bianco e nero e a colori, di Jeff Wall (1946)
che avendo iniziato ad operare dagli anni Settanta, segnati dal
concettuaiismo, impregna le sue costruzioni immagnarie di alta
definizione tecnica e intellettualistica.
I suoi insiemi che prendono la forma di “lightbox”, tipico annuncio
pubblicitario con illuminazione dal retro, hanno una forte connotazione
compositiva. Riflettono la costruzione di un set cinematografico in cui
l'artista decide i gesti degi attori e il paesaggio circostante, che
deve apparire nella fotografia finale. L'effetto ricercato è quello di
un'immagine del disegno e dal taglio prestabiliti,dove nulla è affidato
al caso. Assenza quindi di improvvisazione da reportage e taglio
drammatico che sottolinei ia qualità frammentaria della ripresa, casuale
ed improvvisata.
L'intento è di offrire una totalità fotografica (al PAC, Mliano, fino al
9 giugno) che si avvicina agli affreschi di Giotto o alle pitture di
Caravaggio, di Vermeer a di Raffaello, in cui il racconto è concluso e
unitario, così da comunicare un'intensità invisibile, ottenuta
attraverso una formalità assoluta e ammirevole. È proprio nel passaggio
dalla tradizione artistica all'uso delle tecnologie contemporanee, come
il computer, che Wall aspira a mantenere la ricerca visiva nell'ambito
della mimesi trascendentale e sublime. Le elaborate composizioni che
tratteggiano sempre racconti
di violenze sociali tra persone e tra guppi etnici, tra abbienti e
poveri in strada quanto in casa, sono una testimonianza ingegnosa di
un'arte di precisione quasi neobarocca ottenuta attraverso la macchina
fotografica: una fusione tra visione classica e mass-media.