Forse il giudizio più calzante dell'opera di Michail
Saltykov-Scedrin l'ha coniato il censore dello zar nel proibire, nel
1857, la messa in scena del suo dramma Morte di Paszhukhin:
«I personaggi
descritti dimostrano che la nostra società langue in uno stato di
totale devastazione morale». Anche perché questo classico dell'800
russo - tradotto in Italia per la prima volta dopo decenni - aveva
una posizione unica: Saltykov - grande cognome della nobiltà russa
più antica - era un funzionario di carriera, un alto grado della
burocrazia imperiale che aveva visto dall'interno i vizi della
Russia di provincia che poi con il pseudonimo di Scedrin fustigava
nei suoi saggi, fiabe e romanzi. Una sorta di «infiltrato» che la
conoscenza perfetta del «legalese» dell'epoca e la penna caustica
hanno reso il più grande satirico dell'800: frasi come «confondeva
l'amor di patria col rispetto dei regolamenti governativi», o
«sentiva il desiderio di qualcosa, forse di una Costituzione, forse
di uno storione al rafano, oppure di scuoiare qualcuno» sono incise
nella memoria dei russi, diagnosi sempre attuali dei loro mali.
Posechon'je è il suo ultimo romanzo, finito poco prima della
morte nel 1869, dopo 63 anni di alti e bassi, promozioni e condanne
al confino, battaglie per le riforme e licenziamenti
per «idee che contraddicono il bisogno di ordine e legge», battaglie
con la censura e attacchi dei colleghi letterati (per i radicali
come Chernyshevsky era troppo «reazionario», per gli slavofili
guidati da Dostoevskij troppo «liberale»). Famoso da giovane come
ispettore implacabile nelle province russe (quello che non arrivava
mai nelle pagine di Gogol), questo nobile attratto da
giovane dal socialismo ha, come giornalista, editore e servitore
dello Stato, preparato e seguito la grande stagione dell'abolizione
della servitù della gleba.
Il racconto autobiografico della vita patriarcale di una famiglia di
nobili di campagna vuole ricordare il «bel tempo antico», con una
narrazione minuziosa degli usi, costumi, consumi che man mano
diventa una galleria di ritratti di mostri, e di mostruosità. È un
mondo dove il protagonista bambino si imbatte, esplorando la tenuta
di una parente, in una servetta di 12 anni legata al
palo in una stalla e frustata. Il cameriere che sbaglia a porgere il
piatto viene costretto a pregare in ginocchio battendo gli inchini
sul pavimento, mentre la famiglia continua a mangiare. La madre Anna
Pavlovna proibisce alle ancelle di sposarsi, «se no non pensano più
al lavoro», e le «peccatrici» vengono date in moglie a forza al
contadino più brutto e povero. I maschi disobbedienti vengono
mandati a fare il soldato, a vita. La signora proibisce perfino il
canto, qualunque manifestazione di umanità e autonomia dei servi,
che hanno come unica via d'uscita la fuga o il suicidio.
Un inferno raccontato con i toni pacati di una cronaca familiare,
nella banalità quotidiana di un male che contagia tutti, quello che
Scedrin definiva «l'effetto devastante della schiavitù legalizzata
sulla psiche umana». I padroni torturano con la stessa meticolosità
con la quale organizzano i lavori nei campi (7 giorni su 7 per i
contadini). I servi ripetono «non borbottare, non protestare» e -
salvo rare esplosioni di rabbia come le cameriere che soffocano con
il cuscino la padrona particolarmente bisbetica - sprofondano in
un'apatia, brutalità e violenza che li rende «schiavi non solo nel
nome, ma per vocazione», come il marito che esegue l'ordine di
frustare la moglie, o i servi promossi che diventano ferocissimi
«kapo» di questo gulag rurale.
Era «il periodo più aspro del servaggio», un sistema che permeava
non solo il rapporto padroni-servi, ma anche «tutte le forme di
convivenza, trascinando tutti i ceti nei gorghi d'un avvilente
dispotismo, alla mercé di qualsiasi espediente furbesco, nel terrore
d'essere schiacciati in qualunque momento». Anni dopo i nobili
chiamano l'abolizione della servitù (avvenuta nel 1861) «la
catastrofe», come in un Via col vento povero e senza
passione.
Anche i rapporti all'interno del ceto nobiliare, infatti, tra
ignoranza, servilismo e prevaricazione sono verticali: i bambini
maltrattati, i giovani repressi, le mogli (o i mariti) vessati, in
una sorta di «nonnismo» dove chiunque ha un briciolo di potere ne
abusa per accettare come dovuto l'abuso dei superiori. Un Paese
enormemente ricco che finisce nell'incuria e nella miseria, dove la
crudeltà dei rapporti umani impedisce qualunque sviluppo e
l'atteggiamento preferito e più ricercato dal potere è quello dello
spavento permanente.
Forse per questo Scedrin all'epoea sovietica veniva relegato a
classico «minore», nonostante Lenin adorasse citarlo (mentre Marx,
che lo leggeva in russo, lo bocciava come «poco positivo»). Poche
lezioni al liceo, onori come le opere complete, il suo nome dato a
biblioteche e teatri, tutti i gadget del Pantheon dei grandi, ma
elargiti con prudenza a un autore che resta di stridente
attualità nel descrivere eterni mali russi che si erano riprodotti
sotto il sole dell'avvenire, e continuano a fiorire rigogliosamente
anche 150 anni l'abolizione della servitù.