Il ventinovenne milanese Vincenzo Latronico decide, all'inizio del
2012, di fare un viaggio in Etiopia, assieme al fotografo
milanese-berlinese Armin Linke,
sotto l'impulso del progetto editoriale “Humboldt" della Quodlibet,
“che voleva saggiare la percorribilità del racconto di viaggio come
genere letterario, a più di un secolo dal suo momento di gloria". In
Etiopia, perché sua madre è nata lì, e lì sua nonna era arrivata a
cinque anni, con i genitori esuli dalla Russia dopo la rivoluzione
bolscevica. Un loro avo aveva già partecipato alla costruzione di
quella ferrovia Addis Abeba-Gibuti con cui l'Etiopia imperiale aveva
cercato uno sbocco al mare legandosi all'influenza della Francia, di
cui proprio la Russia zarista era alleata di ferro. Il nonno
dell'autore vi aveva esercitato la professione di avvocato, ed era
poi morto in un campo di prigionia inglese durante la Seconda guerra
mondiale. Il suo bisnonno, invece, “ci è
stato spedito da Mussolini con il procuratore del re per l'Africa
orientale italiana, distinguendosi in quanto autore della teoria
secondo cui, piuttosto che affidare alla giustizia etiope le
indagini giudiziarie, se i testimoni si rifiutavano di collaborare
con l'amministrazione fascista conveniva punire in blocco l'intero
villaggio in cui un reato aveva avuto luogo”. Latronico ritrova in
Etiopia quei piatti piccantissimi che in famiglia talvolta si
preparavano ancora. E scopre che gli etiopi di oggi chiamano
“stekkino” lo stuzzicadenti, “sbirito" l'alcol e “araçata"
l'aranciata. Scopre anche che ad Addis Abeba ci sono il Markato, il
quartiere di Piassa e quello di Kazanç'is: quest'ultimo, sorge dove
erano state costruite le case dell'Incis. Incontra vecchi ancora
capaci di cantare a memoria “Faccetta Nera”. E capisce che il famoso
circolo ricreativo Giùventuz, di cui sua madre tanto gli aveva
parlato, in realtà era dedicato alla Juventus. Il suo compagno di
viaggio, Armin
Linke, può fotografare anche il metafisico monumento fascista
costituito da una scala con tanti gradini quanti erano all'epoca
dell'edificazione gli anni della Marcia su Roma. In cima, dopo la
presa del potere da parte di Hailé Selassié, è stata messa la statua
del Leone di Giuda, simbolo del sovrano. La ferrovia di Gibuti non
funziona più, anche se i dipendenti sono ancora lì, in attesa di
misteriose ristrutturazioni. I documenti di famiglia che Latronico
cerca non saltano fuori. Nel frattempo capisce che nella casa di
Arthur Rimbaud a Harar, aperta ai visitatori, in realtà lo scrittore
non aveva mai vissuto. Quella vera era stata demolita, ora c'è un
manufatto moderno le cui mura Rimbaud non vide mai. “Dall'alto di
Addis Abeba si percepisce solo lo strato superiore, grattacieli e
alberi, e pare di essere in Canada; e dal basso a tratti non si
vedono che bidonville e rigagnoli nello sterrato, e pare di essere
in Africa, dove in effetti si è”.
Si mescolano il razionalismo architettonico del fascismo italiano e
quello del comunismo del Derg. Insomma, il narratore e il fotografo
si accorgono che, partiti “con il più coloniale degli spiriti”, come
“Narciso nelle colonie, convinti di avere a che fare in buona
sostanza con uno specchio, e di sapere già che immagine avrebbe
restituito”, si ritrovano di fronte a “un prisma": “Non so
con cosa sono tornato in mano. Non è un esemplare di "racconto di
viaggio", però". E' comunque un racconto. Completato, oltre che
dalle foto, da un dossier sull'Etiopia comprensivo di alcuni scritti
di Angelo Del Boca su Hailé Selassié, di un album fotografico sullo
stesso Negus, di un saggio di Simone Bertuzzi sul rastafarismo, di
un dizionarietto della parole italiane in lingua amarica. E di molte
informazioni pratiche: utili per chi, comunque, quel viaggio in
Etiopia volesse provare a rifarlo.