Comincia come un libro di avventure Narciso nelle colonie , il racconto
(per immagini e parole) del viaggio in Etiopia dello scrittore Vincenzo
Latronico e del fotografo Armin Linke. Comincia nel deserto arroventato a
bordo di una Toyota sgangherata, con i nostri eroi persi da ore alla
ricerca di un lago che sembra spostarsi sempre più in là per sottrarsi
ai loro sforzi.
Un deserto di pietre, di capre e di persone (soprattutto di persone,
come Latronico sottolineerà più volte), di parole incomprensibili e di
calore ottundente. Un deserto in cui il tremolio dell’orizzonte si
mescola alle indicazioni di uomini della stessa sostanza del vapore,
ugualmente misteriosi e incomprensibili.
Ma in questo deserto hanno anche girato alcune scene di 2001 Odissea
nello spazio e i nostri bravi occidentali lo sanno. Al silenzio delle
mappe e della desolazione che li circonda cercano allora rimedio
rintracciando nel paesaggio riferimenti alle scene sbiadite della loro
memoria mentre le rocce e i promontori mostrano un’eloquenza ingannevole
e pericolosa.
Alla fine troveranno il lago e il loro viaggio proseguirà. E
incontreranno ancora luoghi e persone e cose che Latronico racconterà e
Linke ritrarrà con la sua macchina fotografica. Ma è in queste prime
righe che viene dichiarata ogni cosa.
L’Etiopia che li accoglie non è un territorio vergine né ingenuo.
L’epoca del colonialismo italiano ha lasciato di sé una memoria
incancellabile e le tracce sono dappertutto: dalle infrastrutture
all’organizzazione del lavoro, dalla lingua all’economia. Ma di tutto
questo all’Italia e agli italiani non resta che il vago ricordo di un
senso di colpa non ancora elaborato. Troppo poco.
Vincenzo Latronico fa i conti con tutto questo: col suo immaginario
filmico e culturale di giovane occidentale colto, con l’indefinibile
senso di colpa di chi appartiene al popolo che è stato oppressore, con
la vergogna che gli viene dalla nostalgia e dall’odio con cui gli Etiopi
ricordano l’occupazione italiana. Soprattutto fa i conti con la storia
della sua famiglia di cui in Etiopia è stato scritto un capitolo
importante, all’ombra delle traversine della prima ferrovia del paese.
La sua storia, i ricordi, le colpe, i pranzi, il caldo, il tempo
immobile e gli incontri sono gli ingredienti di un libro bello e
profondo che ci porta alla scoperta di un paese e di un confine, un
confine oltre il quale la coscienza di un occidente tecnologico,
informato e iperconnesso è costretto ad ammettere la parzialità della
propria visione di un mondo che conosce altre regole. Non è più il tempo
dei viaggi dove Phileas Fogg poteva consultare il suo orologio da
taschino a dorso d’elefante sicuro della superiorità della cultura
britannica su quella indigena: due secoli dopo chi si mette in viaggio è
costretto a mediare continuamente fra la propria cultura e quella
dell’altro, fra la consapevolezza di un’alterità ineliminabile e
l’impossibilità di godere dell’esotico senza venire a patti col proprio
senso di colpa.
Di tutto ciò un secolo di cultura visiva ha scolpito immaginari di
granito, e in questo senso non potrebbe essere più adatto il progetto
che Latronico e Linke firmano per Humboldt: un libro fatto di immagini
(letterarie e fotografiche) che infrangono il confine fra il
documentario e la storia, fra colpa e gratitudine, fra la precisione
della scienza geografica e lessicale (molti i glossari e le cartine
nella seconda parte del libro) e l’ambiguità di un’esplorazione
sentimentale che non conosce requie. Vengono a patti insomma con
l’immaginario costituito per trovare se stessi e l’altro fuori dalla
palude dei cliché.
Ci sono riusciti? Nelle ultime pagine Latronico sembra nutrire qualche
dubbio (da cui anche il titolo, Narciso nelle colonie): troppo sfocata
ancora la nostra storia coloniale, troppo sfocati i nostri pensieri e le
nostre identità oggi, troppo sfocati i progetti e il futuro di un paese
come l'Etiopia che ha imparato a dimenticare il proprio passato (quando
non a riscriverlo).
La memoria storica, il ricordo, la conservazione delle testimonianze, la
loro valorizzazione, sono questi i processi che ci permetteranno di
strutturare un immaginario e una cultura visiva storicizzati, in grado
di riconoscere giudizi, condanne e assoluzioni. Ma il cambiamento è
lento come un viaggio, come questo viaggio, anche se come ogni viaggio,
prima o poi, conoscerà una fine.