E’ solo da una decina d’anni che le retrospettive sui fotografi
contemporanei vengono finalmente ospitate nei musei d’arte
contemporanea, accanto alle monografie sugli artisti visivi. Uno dei
casi più celebri è quello del fotografo canadese Jeff Wall, esposto alla
Tate Modern e al MoMA tra il 2006 e il 2007 (e oggi al PAC di Milano
con una selezione circoscritta di opere).
I lettori italiani dispongono ora di un’ottima antologia degli scritti
più importanti di Wall (cui avrei personalmente aggiunto “Depiction,
Object, Event”, pubblicato su Afterall nel 2007), curata da Stefano
Graziani (Gestus. Scritti sull’arte e la fotografia, Quodlibet).
Vi si leggono alcuni tra i testi più incisivi scritti sulla fotografia
contemporanea negli ultimi trent’anni, quali “Il Kammerspiel di Dan
Graham” (1982) e “Segni di ‘indifferenza’: aspetti della fotografia
nella (o come) arte concettuale” (1995). In quest’ultimo Wall – assieme
fotografo e critico della fotografia – offre un’interpretazione delle
pratiche fotografiche degli anni sessanta molto discussa, nel duplice
senso: spesso citata da storici dell’arte e della fotografia, è stata a
volte rimessa in causa per la sua parzialità.
Cosa accade dunque in questo decennio, uno dei momenti più importanti
nella storia culturale della fotografia e nella sua percezione? Se la
fotografia è stata inventata nel 1839, suggerisce Douglas Crimp, è solo
negli anni sessanta e settanta che – esposta studiata collezionata –
viene effettivamente scoperta, dalla critica come dagli artisti
contemporanei. E’ il momento in cui in Francia escono articoli ormai
classici quali “Retorica dell’immagine” (1964) di Roland Barthes o
“Ontologia dell’immagine fotografica” (1967) di André Bazin. E’ il
momento in cui la fotografia esce dall’archivio cui era destinata e
acquisisce le sue lettres de noblesses moderniste, in cui migra dalle
sale più polverose delle biblioteche alle sale dei musei d’arte
contemporanea. Fa il suo ingresso nel mercato internazionale dell’arte,
nelle collezioni e in altre istituzioni “taste makers”.
Un processo lento e graduale. All’epoca infatti persino centri votati
alla contemporaneità quali New York erano indifferenti alla fotografia.
Tra i primi a reagire a livello istituzionale fu John Szarkowski,
curatore della fotografia al Museum of Modern Art tra gli anni sessanta e
novanta. A partire dall’esposizione The Photographer’s Eye (1966),
Szarkowski contribuì a stabilire il valore estetico e formale della
fotografia passando per categorie elaborate nell’ambito della pittura,
un po’ come nella fotografia pittorialista di Alfred Stieglitz. Questa
legittimazione segnò il passaggio storico dalla fotografia all’arte
fotografica, dalla sfera documentaria alla sfera estetica,
dall’illustrazione e dall’informazione all’autonomia propria della high
art. Ma penalizzò il contesto socio-politico, la circolazione delle
immagini sulla stampa, il potenziale rivoluzionario della fotografia in
quanto medium di massa, insomma quanto aveva contribuito, negli anni
venti e trenta, a fare della fotografia un’allegoria del modo
capitalista di produzione.
La reazione non si fece attendere: negli anni settanta (quelli in cui Susan Sontag redige gli articoli raccolti in On Photography)
si torna a discutere della produzione, circolazione, diffusione,
consumo e potere della fotografia, della costruzione del suo significato
sociale, degli effetti politici e ideologici della rappresentazione,
del rapporto tra fotografia e società dello spettacolo, di questioni di
soggettività e agency. Si torna a discutere di quelli che Craig Owens e
Rosalind Krauss chiamano gli “spazi discorsivi della fotografia” o il
“fotografico”, una forma di rappresentazione che si dà assieme alla sua
riproducibilità, refrattaria quindi a ogni recupero modernista. Sin dal
1977, per definire le pratiche postmoderniste dell’appropriazionismo o
della ri-fotografia, viene utilizzato il termine “pictures”, più
generico rispetto a “photo” e non ristretto a un medium specifico
(pittura, disegno, scultura ma anche foto, film e performance).
“Pictures Generation” – John Baldessarri, Troy Brauntuch, Jack
Goldstein, Sherrie Levine, Richard Longo, Richard Prince, David Salle,
Cindy Sherman, Philip Smith – l’ha definita retrospettivamente una
mostra al Metropolitan nel 2009.
Ora, qual è la posizione di Jeff Wall? A guardare la sua opera, che
pullula di riferimenti alla storia della pittura, non esiterei un attimo
a rispondere: quella della “photo” e non delle “pictures”, quella della
forme-tableau, come l’ha definita Jean-François Chevrier, ovvero una
fotografia concepita per esser appesa al muro e che richiede la parete
non diversamente dalla pittura. Non una fotografia che diventa
pittorica, ma una fotografia che eredita problemi tipici della pittura
moderna. Questa lettura è stata rilanciata, con la finezza intellettuale
che gli è propria, dallo storico dell’arte Michael Fried. Il suo
photographic turn risale al 1996, quando incontra Wall a Rotterdam e si
rende conto di condividere le stesse preoccupazioni sulla pittura.
Quest’incontro segna il ritorno dell’esperienza modernista with a
vengeance, realizzato da Fried in un libro dal titolo inequivocabile: Why Photography Matters as Art as Never Before (Yale
University Press 2008). Si tratta di una revisione critica del
postmodernismo attraverso la fotografia, cioè precisamente attraverso
uno dei medium che ha più contribuito all’istituzione del
postmodernismo. Le attese del modernismo frustrate dalla sensibilità
minimalista, così ragiona Fried, sarebbero al centro della ricerca
fotografica sin dalla fine degli anni settanta, come evidente, per
citare tre punti: nel formato di grandi dimensioni, nel richiamo alla
frontalità dell’opera rispetto allo spettatore, fin’allora prerogativa
della pittura modernista, e nella forme tableau.
Eppure gli scritti di Wall, a partire da “Segni di ‘indifferenza’”, ci
restituiscono una posizione più sfaccettata della semplice
contrapposizione photo/pictures o del redux modernista di Fried. Reculer
pour mieux sauter: Wall fa un salto indietro agli anni trenta, quando
si sviluppa il fotogiornalismo artistico, quando la fotografia artistica
non si sviluppa più dalla pittura ma dal fotogiornalismo. “In quanto
istituzione sociale si può definire, molto semplicemente, come una
collaborazione tra uno scrittore e un fotografo”, cui va aggiunta la
ricerca della spontaneità, la cattura dell’istantaneo e del fugace,
l’abbandonarsi al flusso degli eventi. Wall riconduce l’emergere del
fotogiornalismo a un momento più remoto nel tempo: a Mallarmé e al
simbolismo francese, quando la poesia si confronta non più con la prosa
ma con la strumentalizzazione del linguaggio compiuta dal giornalismo.
Nella prospettiva della storia della pittura, risale al periodo
contenuto tra L’esecuzione di Massimiliano (1868) di Manet e Guernica (1937) di Picasso.
Ad ogni modo queste analisi convergono tutte sulla fine degli anni
venti, quando si diffonde “l’idea che si possa fare arte imitando il
fotogiornalismo”, quando “il fotogiornalismo comincia ad apparire come
arte, e l’arte come fotogiornalismo”. Wall individua al proposito due
saggi e un romanzo. I saggi: L’autore come produttore (1934) di Walter Benjamin e la mostra-libro American Photographs (1938) di Walker Evans. Il romanzo: Nadja (1928)
di André Breton, con le foto di Jacques-André Boiffard, “prima
espressione del concetto di fotogiornalismo inteso come forma d’arte”.
Walker Evans è per Wall il modello del fotografo-impiegato che si fa
free-lance, si mette in proprio e diventa fotografo-artista moderno, che
compie il salto dal fotogiornalismo al fotogiornalismo artistico, dal
lavoro per le riviste alla sperimentazione personale. Un passaggio
segnato da uno scarto interno decisivo per seguire il ragionamento di
Wall: “Questa innovazione non si basava sui risultati raggiunti dal
fotogiornalismo, bensì sui suoi limiti, e addirittura sulle sue carenze.
E’ concentrando l’attenzione sui limiti della fotografia giornalistica
che diviene possibile una fotografia giornalistica artistica”.
E’ la matrice del pensiero di Wall. Entra a pieno regime quando abborda
il periodo 1955-1978 che gli sta più a cuore e che ha saputo sfidare la
legittimazione della fotografia sul piano istituzionale e commerciale.
Anni di neoavanguardia, di attivismo e sperimentalismo, di arte
concettuale e post-concettuale, di performance e land art. Wall insiste
in particolare su: l’integrazione tra reportage e performance (Richard
Long, Bruce Nauman); la parodia del fotogiornalismo nei falsi diari di
viaggio di Robert Smithson (The Crystal Land, The Monuments of Passaic, Incidents of Mirror-Travel in the Yucatan); il foto-saggio di Dan Graham (Homes for America,
1966); i libri di Ed Ruscha realizzati tra il 1963 e il 1970;
l’interesse per il fotogiornalismo di Andy Warhol, Gerhard Richter e On
Kawara, un “tentativo di ricreare una sorta di peinture de la vie
moderne”; Marcel Duchamp e gli artisti che si sono confrontati coi
problemi estetici della fotografia senza cadere in un facile ibridismo
multimediale (sui cui risultati il giudizio di Wall è negativo); il
lavoro di fotografi-critici quali Alan Sekula e Victor Burgin. Senza
dimenticare Bernd e Hilla Becher, Douglas Huebler, Keith Arnatt, John
Hilliard, Mel Bochner, Joseph Kosuth, Art & Language.
Cos’hanno in comune pratiche così diverse? Che sospendono la tirannia
modernista dell’estetica automona e autoriale degli anni quaranta e
cinquanta, quella rilanciata, seppur con tanti distinguo, da Michael
Fried. Riguardo all’autonomia, la fotografia abbandona la composizione,
mutuata dal tableau della pittura classica, ancora operante in Paul
Strand, Brassaï, Henri Cartier-Bresson. Riguardo all’autorialità,
competenza e talento perdono di valore quando l’attrezzatura
professionale per produrre immagini è alla portata di tutti. “In quel
momento, dunque, il dilettantismo cessa di essere una categoria tecnica,
e si rivela una mobile categoria sociale in cui la competenza limitata
diventa un campo aperto alla ricerca”.
Nella prospettiva modernista in cui Wall inscrive la storia della
fotografia, non vi erano alternative: “l’arte autonoma aveva raggiunto
un livello in cui sembrava non ci fosse altro modo di realizzare
validamente dell’arte se non mediante la più rigida imitazione dell’arte
non-autonoma”. Wall vive questa fase in tutta la sua carica
paradossale. Da una parte conosce a fondo la tradizione classica della
fotografia documentaria (Eugène Atget, Walker Evans, August Sander) e
del fotogiornalismo artistico (Bill Brandt, William Klein, Robert Frank,
Lee Friedlander, Weegee). Sono questi i fotografi più stimati e
studiati, in particolare Evans, Atget, Frank e Weegee. Dall’altra parte,
però, non può fare a meno di preferire loro quegli artisti che si
riappropriano della fotografia documentaria e del fotogiornalismo per
farne una sorta di parodia. “Sul piano della fotografia in quanto
fotografia, o della fotografia in quanto pura e semplice arte, dovevo
ammettere che Evans, Atget e Strand erano migliori di Smithson o di
Ruscha. Ma il problema era che quel ‘migliori’ sembrava vietato,
all’epoca”.
Ecco esplicitata la matrice del pensiero di Wall: a partire dagli anni
sessanta la fotografia non viene rivalutata per il suo valore artistico –
“la fotografia artistica era fin troppo ben radicata nelle tradizioni
pittoriche dell’arte moderna” – ma, al contrario, per la sua
non-artisticità. L’intenzionalità della fotografia diventa meno
importante del suo automatismo. Più che di fotografia concettuale,
dovremmo parlare di un uso concettuale della fotografia, di quella che
potremmo chiamare la sua fase readymade.
Questo de-skilling del medium fotografico, questa appropriazione del
dilettantismo e del non-estetico, non va preso alla leggera. Wall lo
considera come “un atto di interiorizzazione dell’indifferenza della
società nei confronti della felicità e della serietà dell’arte”, di
un’arte tollerata dalla società solo quando è ridotta a “segni di
indifferenza”, come si legge in riferimento all’estetica di Adorno. E’
solo dall’autocritica dei presupposti estetici del medium artistico
della fotografia, dall’“auto-detronizzazione”, dal gesto di rinuncia che
poteva ancora prodursi lo shock avanguardistico. Fu così che “Per un
artista dotato di talento e di capacità tecniche, imitare una persona di
scarsa abilità divenne un creativo gesto di sovversione”. Wall non
nasconde i rischi di tale operazione. Il riduzionismo estremo del
dilettantismo “accentuava la rassomiglianza fra opera d’arte e
non-arte”. La mimesi del non-estetico poteva risolversi in un’ambigua
“identificazione con l’aggressore” (è il caso di Warhol ad esempio). In
questo modo, “Il fotoconcettualismo aprì la strada all’accettazione
completa della fotografia come arte – autonoma, borghese e
collezionabile – insistendo sul principio che la fotografia fosse un
mezzo privilegiato per la negazione di questa stessa idea”.
Questa natura bifida della fotografia sembra far parte della sua storia.
Thierry de Duve ha osservato una curiosa coincidenza: la morte
dell’arte fu profetizzata da Hegel nel 1839, lo stesso anno in cui
William Henry Fox Talbot e Louis Daguerre, in maniera indipendente l’uno
dall’altro, resero pubblica l’invenzione della fotografia. Fiat photo
et pereat ars. La morte dell’arte si accompagnò alla nascita di quel
medium che, ci ricorda Jeff Wall, ha “messo in moto il processo storico
della modernità”.