Recensioni / Se Kafka tradisce il destino ebraico

Egli è come un uomo che scia tra i detriti, per dimostrare con i suoi ruzzoloni e le sue scalfiture, a coloro che spacciano i detriti per neve, che questi non sono altro che detriti... Ma coloro che lo videro sciare tra i detriti credettero di veder formarsi neve fresca sotto i suoi sci». Difficile immagine il gracile scrittore alle prese con un pendio tanto accidentato: eppure questa metafora conclude un lungo «slalom» fra le pagine di Kafka. Una gimcana impietosa, frutto di quel genere di esperienze che mostrano il mondo tutto diverso da prima.
Ne è autore Günther Anders (alias Stern), un intellettuale ebreo nato a Breslavia nel 1902 ed emigrato, nel 1933, dapprima a Parigi e poi negli Stati Uniti. Nel 1950 Anders tornò in Europa e visse a Vienna sino alla fine, nel 1992. Durante il soggiorno parigino, in fuga dal nazismo, si trovò a insegnare tedesco all'istituto di studi germanici dove, a titolo d'esame d'ammissione all'insegnamento, gli toccò scrivere una conferenza su un autore di lingua tedesca. La scelta cadde sullo scrittore praghese che allora, nel 1934, era ancora un inconnu fameux. Del resto, il paradosso ben gli si addice. Questo fu dunque il primo nucleo di quel Kafka. Pro e contro che Anders pubblicò nel 1951 e che oggi l'editore Quodlibet traduce in italiano, con apparati e appendice. Si tratta di un testo aspro, a volte avvitato a volte lucidissimo. Certo è che al momento della sua pubblicazione in tedesco fu considerato come un atto di lesa maestà. Perché Anders mette sostanzialmente in guardia dal culto di Kafka, o meglio dal culto di una certa disincantata modernità attraverso Kafka. «E' ateo; ma fa dell'ateismo una teologia. E' filosofo; ma da agnostico. E' scettico; ma scettico nei confronti del proprio scetticismo...» Anders imputa a Kafka il narcisismo della vuotezza, riconosce in lui più compiacimento che autenticità. Intravede nella sua decostruzione dell'identità (si veda ad esempio la Lettera al padre) un'ansia inconfessabile di appartenenza. In questo senso Kafka tradisce, secondo Anders, il destino ebraico. Ma attraverso questo tradimento implicito, in fondo aiuta a capire. Sono ad esempio molto interessanti le pagine che Anders dedica alla questione della «religiosità» di Kafka. O meglio, alla cattiva coscienza della cultura moderna nei confronti del «testo originario», «a cui essa stessa sicuramente non crede più, ma la cui originarietà le sembra essere tuttavia l'unica cosa degna di fede in confronto alla non-obbligatorietà del suo proprio rapporto con i contenuti». Per illustrare questo rapporto così travagliato con la fede - e la sua parola - da parte dell'ebreo moderno (ma non solo di lui), Anders entra in un racconto kafkiano che al proposito la dice lunga: «Il maestro del villaggio» e la talpa gigante di cui il protagonista s'affanna a dimostrare l'esistenza. A proposito di talpe, ecco un'altra lettura kafkiana: si tratta di Storie di animali ed è un curioso bestiario spigolando per l'opera di Kafka, a cura di Gaspare Giudice (Sellerio, pp. 323, e9,00). Tornando al maestro e alla sua creatura, rappresentano l'ebreo moderno che s'affanna magari ad un'accurata edizione del Talmud, ne decanta le qualità letterarie, ma non è in grado di condividere la fede che lì trova il suo collega ortodosso. Anders spiega al suo lettore di aver iniziato a scrivere di Kafka in una situazione che più kafkiana non si può: intriso fino al midollo di una cultura tedesca che l'aveva appena ripudiato, esule provvisorio senza alcuna destinazione né appartenenza certa. Eppure la storia dimostra in breve tempo tutta la banalità del paradosso kafkiano, secondo lui. Il miscuglio fra raccapriccio e familiarità, la quotidianità del grottesco (come sta ad esempio nel fatto che Gregor Samsa, quella mattina, non trovi nulla di stupefacente nell'essere diventato un insetto), hanno perso ogni «qualità straniante» al confronto con la realtà dei campi di sterminio dove, muro contro muro, si moriva nelle camere a gas mentre i comandanti «si erano arredati con divani imbottiti, grammofono e abat-jour». In altre parole, secondo Anders la potenza dell'opera kafkiana è stata presto bruciata da una realtà ben più assurda. Egli ci suggerisce dunque se non di «bruciare» Kafka, quanto meno di leggerlo depotenziato: con un briciolo di sufficienza insomma - verso il suo nichilismo, verso le sue deformazioni. Badando ai suoi moniti di «uomo buono», capace di chiedere la distruzione della propria opera. La quale potrebbe, invece, recare ai lettori quell'aiuto che il suo autore non era stato capace di cogliere.