Quando Walt Disney, già sul finire degli anni Cinquanta, iniziò a
sognare la sua città del futuro, parco dei divertimenti come forma in
cavo per l’edificazione di una comunità pianificata, certo non dovette
impiegare molto tempo prima di comprendere come la difficoltà maggiore
sarebbe stata quella di estendere la felicità di un divertimento
passeggero alla durata di un’intera vita in comune. Non stupisce
pertanto lo zelo con cui i progettisti si siano prodigati per dotare una
città come Celebration, sorta in pochi anni dal nulla nella Florida
centrale, di tutto lo spessore opaco che solo una stratificazione
storica può fornire. L’inaugurazione fastosa della piazza principale, le
case dai tratti tanto fiabeschi quanto tradizionali, le mirabolanti
leggende diffuse ad arte in merito alla fondazione della città –
sopravvissuti al naufragio di un galeone spagnolo? eroici veterani della
Guerra di secessione? – tutto sembra concorrere al tentativo di rendere
reale l’esperienza urbana che in essa si sarebbe svolta. Ma come un
qualsiasi parco dei divertimenti, anche una città sorta dal nulla
nasconde tra le sue pieghe una materia ben più reale di quanto la
finzione non permetta di scorgere; del resto, perfino l’acquisto del
biglietto, fosse anche di una visita a tempo indeterminato, certo non
elimina le tracce che hanno condotto all’ingresso.
«Oggi la vita in città è un inferno. Nelle scuole c’è la polizia e i
ragazzi si sparano addosso. La gente vuole di nuovo sentirsi parte di
una comunità»: modellata sugli incubi dell’immaginario borghese e
ispirata alla comunicazione politica più reazionaria, la seducente
campagna pubblicitaria proposta dalla Disney Corporation per promuovere
Celebration non nasconde certo la promessa insita nel suo esclusivo
prodotto. Progettata inizialmente quale forma di città ideale, al
contempo utopia salvifica e gated community estranea o estromessa
dall’alienazione delle grandi metropoli, Celebration si è presto
rivelata essere solo una delle numerose realizzazioni ascrivibili a una
precisa retorica architettonica, sviluppatasi sul finire degli anni
Sessanta in aperta polemica con l’edilizia sociale modernista.
Un’urbanistica figlia dell’industria dell’intrattenimento, assoggettata
al marketing di un’immobiliare privata (la stessa che ne detta le rigide
regole di convivenza) e fautrice di un’estetica ripetitiva e omologante
che al contempo pretende di incarnare o conservare tanto il gusto più
schietto della gente comune quanto gli elementi caratteristici di una
non ben precisata tradizione, concepiti come altrettanti estremi
tentativi di vivere all’altezza di quel che Jean-Paul Dollé chiamava
«l’inabitabile capitale».
Un tale dispositivo architettonico si rivela essere tanto strumento
quanto condizione di possibilità di quelle retoriche populiste
interessate a produrre un pubblico di cittadini omogenei, plasmabili
attraverso la gestione delle loro stesse condizioni – nonché scelte – di
vita. Uno strumento che, riproducendo all’infinito le medesime forme di
vita segmentate in diverse categorie di gusto, non propone altro se non
precisi format esistenziali nei confronti dei quali ogni abitante è
tenuto a scegliere, alla stregua di un qualsiasi consumatore, sfogliando
le proposte di un catalogo: pacchetti d’identità condivise in grado di
soddisfare la ragione democratica, al prezzo, beninteso, di una
riduzione ai minimi termini della sostanza propria delle stesse.
È necessaria una certa fatica, un certo sforzo dell’occhio, per scorgere
le città al di sotto delle immagini proposte nel libro La seduzione
populista. Dalla città per tutti alla città normalizzata (Quodlibet,
2012, pp. 233, euro 23). Esse paiono piuttosto icone, o forse semplici
scenari, attraverso i quali Federico Ferrari tenta di articolare il
rapporto tra populismo e forme urbane; in altri termini, si tratterà di
comprendere «come l’architettura e con essa il progetto urbano siano
diventati vittime di una strumentalizzazione populista» (Ivi, 132) in
grado di ricomporre sapientemente la proliferazione delle pratiche e
delle scelte individuali con una certa esigenza di riconoscibilità e di
stabilità, al fine di garantire quella tanto auspicata società
pacificata che è chiave di volta di ogni utopia, così come delle
democrazie di fattura contemporanea.
Poiché non si dà un’idea politica senza che questa sia intimamente
connessa a uno spazio preciso o a un qualche concetto spaziale, una
simile retorica di pacificazione non potrà che trovare il proprio
correlato in una città sapientemente studiata per cancellarne le
temporalità, per esorcizzarne la storicità – dei luoghi come dei corpi,
dei conflitti come delle oppressioni – mediante la ricerca di
un’architettura armonica quale «metafora di una comunità pacificata, a
cui è espulso ogni elemento perturbante» (Ivi, 64), rigettato fuori
scena, nell’intimità più nascosta di ogni abitazione come al di là dei
confini e delle linee di visibilità tracciate dal decoro del progetto.
Celebration, Bussy Saint-Georges, Pondbury, nomi di città che
corrispondono ad altrettante forme, perfettamente intercambiabili, di un
inedito populismo urbano. Ciascuna di queste città cela malamente
quanto l’ideale urbano da cui esse dipendono sia in realtà un ideale
propriamente politico, intriso di modalità retoriche proprie alla
comunicazione spettacolare, e che alle fratture e alle tensioni
serpeggianti in ogni città sostituisce l’ostensione di un corpo
cittadino pieno e presente a se stesso. «La riduzione dell’architettura e
della forma urbana a icona è allo stesso tempo mezzo e fine di un
progetto politico – non importa se consapevolmente perseguito – che ha
come risultato un’analoga riduzione della società a immagini iconiche
facilmente comunicabili» (Ivi, 36).
Prima ancora di darsi come estensione spaziale, la città si dimostra
essere un dispositivo ottico, che alla concentrazione delle persone e
dei corpi sovrappone una sorta di preparazione dello sguardo, fornendo a
questo una rappresentazione sempre attiva, sempre presente, in grado di
mediare l’identità dei cittadini con se stessi. (Da qui la portata
dell’intuizione di Georges Bataille, che dalle pagine di Documents
proponeva di individuare nel museo uno dei paradigmi biopolitici della
contemporaneità: dispositivo a un tempo ottico e di contenimento,
mediante il quale all’esposizione resa spettacolo si intreccia
indissolubilmente – secondo un movimento che confonde incessantemente
contenente e contenuto – la rigida regolamentazione delle emozioni e dei
comportamenti dei visitatori.)
Si tratta, per Ferrari, di «una città che ha nella messa in scena il suo
tratto saliente» (Ivi, 49), funzionale alla trasmutazione dei cittadini
in altrettanti spettatori, resi così aderenti a tutti quei modelli
narrativi e a quelle costruzioni discorsive che sorreggono una
particolare retorica del riconoscimento. Il versante biopolitico
dell’architettura ormai non investirà più soltanto la produzione di
quelle che Michel Foucault suggestivamente chiamava eterotopie, ma
toccherà allora la città stessa nella sua interezza, nel suo aver luogo,
come se proprio in essa, quale modalità di articolazione tra vita e
spazio, dovesse celarsi la chiave per penetrare nel segreto della
moltitudine umana, indefinita e sfuggente. Sorge così una nuova figura
di architetto – retore, regista e mediatore a un tempo – il cui compito
principale sarà quello di rendere la comunità consapevole di quanto essa
è depositaria per antonomasia, affinché si rispecchi e si riconosca in
uno spazio magistralmente circoscritto e immediatamente percepibile
nella sua unitarietà. Affinché tra spazio pubblico e spazio del pubblico
non permanga dunque il benché minimo scarto: ogni cittadino «assume suo
malgrado il ruolo di attore e contribuisce alla rappresentazione
dell’armonia ritrovata» (Ivi, 69), riproducendo senza sosta la parvenza
di un «legame indissolubile tra armonia sociale e omogeneità
architettonica» (Ivi, 46). Poco importa se, come nel caso di
Celebration, tale legame sia acquisito e mantenuto solo grazie a una
continua riduzione a icona tanto della città quanto delle forme di vita
che in essa si dibattono, quasi fossero prigioniere di quelle speranze e
promesse acquistate a così caro prezzo.
Di fronte a una simile svolta iconizzante, «la posta in gioco consiste
nel confutare quello che si configura come un nuovo totalitarismo, che
ha come suo primo comandamento la negazione di qualsiasi alternativa
alla pervasività delle logiche di mercato» (Ivi, 232), logiche del resto
accolte con entusiasmo ogni qualvolta esse hanno assicurato la duplice
felicità di un modello di vita liberamente scelto e di una coesione
sociale meno repressiva che ambita. O, per lo meno, ogni qualvolta esse
si sono spinte a tal punto nella loro opera di seduzione da far
dimenticare la propria intima natura: del resto, già Emmanuel Levinas
ebbe modo di ricordare come «l’essere imprigionato che ignora la sua
prigione è come a casa sua». Ma è proprio una tale scelta d’oblio a
sancire l’irrevocabile compiutezza di una simile prigione, nel momento
stesso in cui questa si ritrova come separata dalla sua posta in gioco
politica. Nessun luogo franco attende infatti il prigioniero ivi
richiuso. È soltanto rendendosi conto della consistenza specifica di una
simile prigione che sarà tuttavia possibile evadervi. O forse amarla
fino al punto da appropriarsene, carpirne l’intimo respiro così come
questo affiora in ogni istante quotidiano, e seguire in tal modo l’unica
linea di fuga che ancora essa ci lascia intravedere.