La parabola intellettuale di Robert Castel non è comprensibile senza il
suo coinvolgimento nel Maggio parigino. È a partire dalle barricate del
quartiere latino che la sua produzione subisce una svolta inaspettata.
Sociologo di formazione in debito con la tradizione delle scienze
sociali francesi, condivideva le riflessioni sulla modernità di Emile
Durkheim, laddove sottolineava la fragilità del legame sociale rispetto
il carattere tellurico, «rivoluzionario» dello sviluppo capitalistico.
Ma a differenza di Durkheim, era interessato anche alle istituzioni
sorte dalle ceneri dell'ancien régime che mostravano una grande capacità
di tenuta e performatività dell'ordine sociale rispetto a quelle
tendenza del capitalismo di rendere voltatile ciò che prima era solido,
per parafrasare una famosa frase di Karl Marx. Così il primo, importante
saggio Robert Castel lo ha dedicato all'istituzione psichiatrica, che
aveva e ha la funzione di garantire la riproduzione sociale, in una
prospettiva «pastorale» tesa a prevenire, rendendola inefficace, la
devianza dalla norma.
In quel saggio Castel non nasconde la sua sua fonte di ispirazione - La
storia della follia di Michel Foucault -, ma prova ad alimentarla con
una inchiesta sul campo. È con quel libro che avviene la svolta teorica,
che lo ha fatto diventare, anno dopo anno, un intellettuale eterodosso.
Vicino al partito socialista, si è confrontato con le posizioni
teoriche più radicali de marxismo post-Sessantotto, accogliendone la
pretesa di una politicizzazione integrale dei rapporti sociali. Così,
dopo la critica dell'ospedale psichiatrico, e in sordina anche della
psicoanalisi, intesa come una forma di un diffuso controllo sociale, ha
concentrato la sua attenzione sull'altra grande «istituzione» del
capitalismo, la fabbrica.
La maledizione del salariato
Castel parte dal presupposto che il lavoro è la fonte della
cittadinanza, ma ne vede anche la crisi. Comincia infatti a scrivere
sulla Metamorfosi della questione sociale quando le pratiche del
divorzio tra lavoro e cittadinanza sono state già avviate. Quel saggio,
infatti, rappresenta il tentativo di storicizzare il rapporto tra lavoro
e «democrazia sociale», offrendo una provvisoria bussola per orientare
l'esplorazione della società postsalariale. Intraprende così un percorso
teorico che lo porta ad analizzare la precarietà e la crisi del welfare
state, condensato in due brevi, ma intensi saggi: L'insicurezza sociale
(Einaudi) e La discriminazione negativa (Quodlibet).
È quindi illuminante l'intervista raccolta da Claudine Haroche sulle
contraddizioni del capitalismo, ma anche delle possibili via d'uscita
dalla violenza - Robert Castel ha scritto pagine molto appassionate
sulle rivolte delle banlieue, interpretate come disperate manifestazioni
contro le invisibili, ma tuttavia operanti barriere alla piena
cittadinanza di una parte della popolazione - che segnano la metamorfosi
della società salariale.
Il libro intervista è stato pubblicato in Francia nel 2001 e ha come
titolo Proprietà privata, proprietà sociale, proprietà di sé (Quodlibet,
pp. 148, euro 16). Ricordare la data della pubblicazione è importante,
perché il 2001 è l'anno della prima, globale crisi del neoliberismo,
cioè di un modello sociale, economico e politico che ha posto nuovamente
al centro della scena l'individuo proprietario. Nelle scienze sociali,
la figura dell'individuo proprietario non incontra un forte dissenso, ma
neppure una convinta adesione. Robert Castel non è interessato a
liquidarla come una costruzione ideologica, bensì a stabilire quale sia
stata la sua genesi, rintracciandola nella filosofia liberale
ottocentesca e individuando la sua capacità mimetica di sopravvivenza
quando si afferma la «proprietà sociale», cioè la definizione
costituzionale di un insieme di diritti sociali tesi a definire una
piena cittadinanza per chi proprietario non lo era.
La trappola dei liberali
È la lunga stagione del welfare state, la cornice giuridica che
legittima una costituzione materiale incentrata su una figura sociale,
l'operaio, che rivendica appunto la piena cittadinanza. Questo non
significa che l'individuo proprietario scompaia: si mimetizza, subendo
quindi una metamorfosi. Castel, tuttavia, è consapevole che con
l'affermazione del modello neoliberista l'individuo proprietario è un
concetto che viene radicalizzato. Per capire come è potuta avvenire tale
radicalizzazione compie un doppio movimento. La prima mossa è risalire
al nesso tra proprietà e cittadinanza stabilito da John Locke - è
cittadino solo chi è proprietario -; evidenziandone le contraddizioni,
in particolare quando l'economia politica deve considerare anche il
lavoratore un proprietario seppur particolare - possiede la sua
forza-lavoro, che vende e rinnova grazie al lavoro. È così che il lavoro
va a costituire una triade assieme alla proprietà la triade che ha
plasmato le politiche sociali nel Novecento. Per i liberali è il primo
smacco: se anche il lavoratore può essere considerato un individuo
proprietario, la pretesa di limitare la cittadinanza viene meno. Il
secondo movimento compiuto da Castel riguarda il welfare state, cioè il
più coerente tentativo di includere dentro l'ordine politico
capitalistico il movimento operaio attraverso il concetto di proprietà
sociale costruita proprio per i «non-proprietari». I diritti sociali
sono la traduzione operativa di questa «proprietà sociale».
Da questo punto di vista il welfare state è la classica quadratura del
cerchio: viene salvata la proprietà privata, facendo però diventare il
salariato la figura centrale del processo produttivo. Il neoliberismo
punta a distruggere tutto ciò, riportando al centro della scena pubblica
l'individuo proprietario. Ma così facendo, destruttura tutte le forme
di mediazione sociale e politica che hanno garantito la stabilità, certo
precaria, ma pur sempre stabilità dello sviluppo capitalistico.
Dal vagabondo al precario
La cancellazione o il ridimensionamento del welfare state rivelano una
violenza strisciante laddove rende incommensurabile la condizione del
proprietario e quella del salariato. Il proprietario, dicono i
neoliberisti, è il solo che ha il diritto alla piena cittadinanza,
mentre i salariati hanno diritto solo a una compassionevole protezione
stabilita discrezionalmente tesa solo alla sua sopravvivenza, condizione
necessaria per la messa al lavoro dei «non proprietari». Le lancette
della storia sembrano così messe indietro nel tempo, agli inizi cioè
della accumulazione primitiva
Castel evoca il vagabondo, la figura simbolica della rivoluzione
industriale che equipara al precario contemporaneo, figura che non è
depositaria di nessun diritto e potenziale pericolo per l'ordine sociale
da sottoporre a un ferreo controllo - le politiche di attivazione
coatta al lavoro, ad esempio - perché la sua presenza è fondamentale
nello sviluppo del capitale. Il precario diviene inoltre la figura
centrale delle insorgenze e delle rivolte sociali. Ma ciò che è
interessante nella posizione di Castel è il suo rifiuto delle tesi
espresse da molti «scienziati sociali» sulla tendenza immanente del
neoliberismo all'esclusione di ampie quote della popolazione.
Il capitalismo neoliberista deve infatti operare inclusioni
differenziate, all'interno di una rigida gerarchia sociale scandita
dalla posizione lavorativa dal colore della pelle, dal genere. Inoltre, e
questo è uno dei passaggi dell'intervista che più di altri sono
controcorrente rispetto alle teorie sociali contemporanee, il welfare
state non è stata una parentesi, ma ha costituito la forma più avanzata
della modernità: la sua cancellazione, ripete Castel, mette a rischio la
sopravvivenza stessa della stessa modernità. Per questo, c'è da
aggiungere, le ricorrenti, seppur a geografia variabile, rivolte contro
il neoliberismo fanno riferimento a quei diritti sociali di cittadinanza
che hanno costituito, nel Novecento, la cornice politica di critica al
capitalismo. Inoltre, il contemporaneo precario ha una caratteristica
fondamentale che lo differenzia dal vagabondo. Da una parte soffre di un
deficit di appartenenza sociale, ma dall'altra presenta un surplus di
soggettività grazie ai processi di soggettivazione messi in campo da
oltre un secolo di conflitti di classe e di di oltre quantan'anni di
welfare state.
L'incubo del nuovo ordine
Senza tornare alla spesso stucchevole discussione sull'esistenza o meno
della postmodernità, quello che emerge dal libro intervista di Castel è
però la fotografia di una impasse del capitalismo. Da una parte i
neoliberisti vogliono costruire l'«uomo nuovo» - l'individuo
proprietario - che decide la sua vita in base alla logica economica dei
costi e dei ricavi; dall'altra la diffusa resistenza al nesso tra
cittadinanza e proprietà privata. Il conflitto torna dunque a
manifestarsi in forme estreme e talvolta violente.
Il libro, è stato ricordato, esce nel 2001, l'anno dopo il crollo del
Nasdq e la fine del sogno di vedere nella Rete il nuovo eden
capitalistico. Dodici anni dopo, la crisi del neoliberismo è ancora più
radicale. Le pagine dedicate alle possibili vie d'uscita dall'impasse
vanno dunque lette con attenzione. Specialmente quando intervistatrice e
intervistato discutono sul reddito di cittadinanza. Entrambi concordano
nel considerarlo la forma per un nuovo matrimonio tra lavoro e
cittadinanza. Ma è qui che lo schema di Castel presenta un'intima
fragilità. Lo sviluppo capitalistico non può garantire più la piena
occupazione nelle forme novecentesche. Paradossalmente può garantirla
solo attraverso una pervasiva e diffusa precarietà, dove l'intermittenza
tra lavoro e non lavoro è tanto convulsa quanto «normale» esperienza di
vita. Da questo punto di vista il divorzio tra lavoro e cittadinanza si
è già consumato.
Il reddito di cittadinanza è dunque una forma di mediazione sociale che
meglio si confà a una realtà fondata sulla figura del precario e su una
disoccupazione strutturale. È cioè una misura «riformista» che punta a
salvaguardare quella proprietà sociale affermatasi con il welfare state.
Non ha dunque niente di rivoluzionario, ma consente di modificare i
rapporti di forza nella società e relegare sullo sfondo, questa volta sì
per sempre, la figura dell'individuo proprietario. E apre lo spazio per
quel comune prodotto dalla cooperazione sociale. Consente cioè di poter
cominciare nuovamente a pensare la politica della trasformazione.