«Io come dico sbaglio» era l’intercalare del penultimo, esilarante parto
narrativo di Paolo Morelli, Il trasloco, dedicato all’illustrazione
degli effetti catastrofici subiti dalla psiche e dal mondo di chi venga
colpito dalla sciagura di cui al titolo. In quest’ultimo Racconto del
fiume Sangro, invece, Morelli sembra essersi prefisso di sfuggire
all’errore insito nella condizione umana: un’infallibilità per natura,
decretata dagli astri.
Protagonista del racconto è infatti il fiume, non il viaggiatore che in
una settimana d’aprile ne ha disceso il corso dalla fonte al mare
annotando sul posto impressioni, pensieri e divagazioni suggeritigli dal
paesaggio. E un fiume, si sa, non sbaglia mai, segue il suo corso,
scende a valle, accetta la pendenza, tende al basso senza rancori né
rimpianti. Il fiume è l’immagine del Tao, la via sempre diversa e sempre
uguale a se stessa dove vittoria e sconfitta, alternativa e dilemma,
sforzo e tensione non esistono (Morelli ha tradotto il Chuang Zu in
romanesco, Er Ciuanghezzú). Ma come traghettare questa proprietà nella
scrittura? Perché la scrittura è un fatto di stile, e stile è scelta,
scarto, alternativa, appunto, tra ciò che si è scritto e ciò che si
poteva scrivere. Non c’è stile naturale, anche il più incondito è
prodotto di artificio. Il fiume non sbaglia mai perché non sceglie – il
che comporterebbe, a rigore, la reciproca, e cioè che lo scrittore
sbaglia sempre, ma non complichiamoci la vita e vediamo piuttosto come
se la cava Morelli.
Il proposito sarebbe registrare tutto senza fronzoli, riducendo la
propria sensibilità allo spessore di una lastra impressionabile, fino al
limite ideale della scomparsa: che sia il fiume ad esprimersi da solo.
Ma questo è ovviamente impossibile e Morelli deve affidarsi all’antica
figura retorica della personificazione, prestando al Sangro le
caratteristiche di un essere animato, senziente, provvisto di
intenzioni, discernimento e carattere. Non arriva, questo no, a farlo
parlare, ma lo ritrae come un personaggio dal profilo psicologico ben
riconoscibile: sfrontato, noncurante, sornione, a tratti strafottente,
impunito, qualche volta avvilito (come quando esce stropicciato e
semisoffocato dall’invaso di un lago artificiale), accogliente con gli
affluenti come un fratello maggiore sicuro del fatto suo, scaltro nel
servirsi della forza d’inerzia, non testardo quando si trova di fronte a
degli ostacoli, mutevole di umore, certi giorni alacre altri pigro,
delicato con le erbe e aggressivo con le rocce, dotato di una voce che
chiacchiera, borbotta, canta, mormora, e una volta gli scappa perfino
qualcosa che assomiglia a un «ohibò»: insomma uno che ha stile, qualcuno
che vien voglia di conoscere, mentre l’autore di sé non dice quasi
nulla, piccoli incidenti, qualche ricordo, qualche moralità un po’
pittima, ma sempre suggerita dal confronto col fiume.
Con un sospetto, da cui Morelli per primo è ossessionato: non saranno,
le sue, tutte invenzioni, proiezioni di sé e anzi dell’Io, cioè di
quanto abbiamo di più immaginario? Non sta facendo attraverso il fiume
il ritratto di ciò che vorrebbe essere? «Il bello e fallimentare di
tutta questa cosa è che non si saprà mai il gradiente diciamo così di
verità di quello che scrivo, mi posso aggrappare solo a questo,
all’insicurezza se sono io a vederlo un po’ turbato dagli argini e
dall’ampia disseminazione di vegetali, che devo fare paragoni e
similitudini magari solo per inventare, per dare un carattere a quello
che è solo un incedere fisico». Sarebbe un peccato, al netto di una
lettura comunque godibilissima. La vera sfida è se esista davvero
qualcosa come una memoria dell’acqua, un concetto cui la scienza non
crede ma sul quale Morelli deve scommettere, pena la degradazione ad
acquarellista dilettante. Se il Sangro è lui, se il prestito di tratti
umani è erogato a usura da un autore che vuol essere ripagato in
fascino, carisma, coolness, era meglio stare a casa, con tanti saluti al
Tao.
Ma è un dilemma che proprio in quanto dilemma è qui privo di senso. Le
barriere tra Io e Non-Io, linguaggio e mondo, visione e immaginazione
sono fluttuanti, porose, permeabili per un taoista, e non solo: «Epicuro
diceva che il gelso è rosso perché c’è una sostanza che lo fa rosso, ma
pure perché Tisbe e Piramo non s’erano incontrati, cioè se non
coesistono due verità non è verità». La bellezza del dettato di Morelli
sta proprio in quelle metafore e similitudini di cui diffida. Non ne
sbaglia una. Per il Tao la memoria dell’acqua siamo noi, l’errore è il
discontinuo e la metafora è la cura. Chissà se è vero, ma in Morelli
funziona, beato lui.