È una delle idee ricevute più persistenti e vischiose di questi ultimi
decenni che la poesia di Fortini richieda al lettore un alto grado di
complicità. Una tesi quantomeno ambigua e riduttiva, se non addirittura
mistificatrice. Fortini non è mai stato poeta per «pochi felici», e
asserire che la sua opera sia, al di fuori di una sparuta cerchia di
iniziati in via d'estinzione, sostanzialmente incomprensibile, è un modo
per rimuovere e neutralizzare una delle voci più ricche e scomode di
questo ahimè troppo «breve» secondo Novecento. Il nuovo volume di Luca
Lenzini Un'antica promessa Studi su Fortini (Quodlibet, pp. 240, €
22,00) può essere letto anche come una risposta critica a tale tentativo
di rimozione. Lenzini, oltre a essere animatore appassionato del Centro
studi Fortini dell'Università di Siena, e quindi della rivista
«L'ospite ingrato», ha già legato il suo nome a uno dei libri più
significativi dedicati a questo autore (Il poeta di nome Fortini, Manni,
1999). Adesso licenzia una raccolta di saggi, in gran parte già
pubblicati in riviste e volumi negli anni Duemila, il cui carattere
«disomogeneo (...) e frammentario» non viene sottaciuto. Ma a volte il
libro meno unitario può risultare più coeso e organico di qualsiasi
monografia, specie se sorretto da elementi di fondo chiari e altamente
strutturanti. Il volume di Lenzini rientra in questa casistica. Vi sono
compresi nove saggi che, con un’alternanza pressoché perfetta,mettono a
fuoco di volta in volta prosa e poesia. Un’altra simmetria è da
rilevare: sia il primo sia l'ultimo intervento si presentano come
letture di respiro complessivo. In mezzo si succedono saggi che si
occupano di oggetti più precisi: le due raccolte poetiche,
cronologicamente estreme, Foglio di via (1946) e Composita solvantur (’94), e poi gli scritti saggistici raccolti in Dieci inverni (’57), Attraverso Pasolini (’93), e Un giorno o l’altro (2006), straordinaria
autobiografia collettiva di un’intera epoca storica, compresa tra il
1945 e il 1978. È impossibile qui, per limiti di spazio, dar conto
partitamente del contenuto dei nove interventi. Ci si soffermerà su
alcune analisi poetiche e sull'ultimo saggio del volume, intitolato
Interpretare i vuoti. Lenzini si volge dunque al Fortini giovane di
Foglio di via, mettendolo in tensione con quello senile e testamentario
di Composita solvantur.
Indica così, oltre agli elementi di continuità, anche la profonda
distanza tra una prima fase creativa, pervasa dalla fiducia in una
dialettica, quella fra speranza e disperazione, fra «sonno» risveglio
storico, ancora fortemente operante nell'Italia della Seconda guerra
mondiale, e un'altra fase, quella postmoderna del nichilismo trionfante,
in cui invece ogni rapporto fra individuo e mondo, «tra tempo storico e
tempo biologico», sembra essere revocato in dubbio. La prima guerra del
Golfo, in questi ultimi versi ilari e sconfortati, appare già evento
remoto e dimenticato – così vuole l'industria mediatica dell’oblio,
sapientemente oliata dal dominio neoliberista. Gli adamantini versi di
Italia 1942 – «A gravi uomini ardenti avvenire / Liberi in fermo dolore
compagni» – masaccescamente scolpiti nel marmo di una cogente promessa
storica, si sbriciolano, a distanza di cinquant’anni, nell'elegia
tremante, e tutta ungarettiana, di una parola-verso flebile e
sussurrata: «Compagni // Non andate così» (Italia 1977-1993). Fortini
registra, nei modi di un'allucinata allegoria, una sconfitta storica di
certo inequivocabile, a cui però non ci si può arrendere. L'ultimo
saggio del volume affronta un tema cruciale: il duplice valore del
concetto di «vuoto» nell’opera di Fortini. Se da una parte il «niente», a
cui i potenti ci guidano con scientifica «dolcezza», è l'idolo polemico
principale di prose e versi, dall'altra affiora una reinterpretazione
positiva del «vuoto» come latenza utopica di elementi storico-sociali
rimossi dal dominio del capitale. Praticare con questa contraddittoria
assenza diventa dunque un metodo di lavoro e un viatico per il futuro:
«Quando pratico col niente / torno, il mio compito, a saperlo» (Da
Brecht). E il lettore di Fortini diventa egli stesso uno di questi vuoti
potenzialmente carichi di avvenire, da suscitare a nuova vita. «Toppe
d’inesistenza... / pronte a farsi movimento e luce», per dirla con
Sereni. Col lettore si ingaggia un corpo a corpo polemico e straniante,
che scommette sulla possibilità di finalmente uscire dal sonno delle
apparenze. Altro che complicità. Al contrario, l'esito di questo agone
non è mai scontato. E a dire il vero Fortini non solo parla sempre «in
partibus infidelium», ma non è mai complice neppure di se stesso; sa
bene infatti che il momento nichilista non è estraneo a nessuno di noi, e
quindi nemmeno alla sua poesia: «Fra quelli dei nemici / scrivi anche
il tuo nome» dice a se stesso nei versi impietosi di Traducendo Brecht.
Il «Negativo» non viene dunque rimosso,ma faticosamente attraversato.
«Non c'è vita vera, se non nella falsa» afferma Fortini, rovesciando un
notomotto adorniano. Ognuno comprende bene come l'opera di questo poeta
ci sia, oggi più di ieri, e meno di domani, imprescindibile e
necessaria. Perché fraterna e nemica, nel medesimo fuggevole istante.