Recensioni / Il lavoro culturale come artigianato

Ciò che stupisce, leggendo Una stanza all'Einaudi, il libro-intervista di Luca Baranelli e Francesco Ciafaloni, curato da Alberto Saibene (Quodilibet), non è tanto l'impegno progettuale sul piano culturale e politico (di cui si è già molto discusso) della casa editrice torinese, quanto la qualità del lavoro artigianale. Baranelli e Ciafaloni, che si definiscono autoironicamente «l'ultima ruota del carro», furono incaricati, alla fine degli anni Sessanta, di interpretare la cosiddetta Nuova Sinistra, che non si riconosceva nel Pci. I due ebbero varie e non sempre felici vicissitudini, estranei com'erano all'orientamento maggioritario della casa editrice, al pari di Raniero Panzieri, da tempo presente in quella redazione di «merluzzi lessi in frigorifero» (parole sue). Ma lasciamo stare, per una volta, gli intrecci politici, le polemiche, le fratture. Quel che colpisce nel libro, si diceva, è anche altro. E cioè il funzionamento tecnico di quella macchina complessa, che va rimpianto non meno della forza intellettuale (egemonica o no che fosse) che ispirava le scelte dei titoli e le collane. Il grande ufficio tecnico di Oreste Molina che, dice Baranelli, «era un bravissimo grafico», con le sue sottosezioni: i correttori di bozze guidati da Nino Colombo (che conosceva gli accenti greci come un professore universitario) e i disegnatori. La trafila del lavoro cominciava, dopo la discussione del mercoledì sui titoli da pubblicare e le valutazioni economiche, dal redattore che leggeva e correggeva il dattiloscritto. Da lì il testo passava ai preparatori, che lo sistemavano prima di mandarlo in tipografia: una questione di criteri grafici, di corsivi, di capoversi, di caporali e di apici, di margini e giustezze, di caratteri. L'Einaudi adottava da tempo una variante del Garamond. Colombo istruiva i giovani sugli aspetti tecnici; proprio mentre Roberto Cerati insegnava agli agenti come andavano distribuiti i libri nelle librerie; mentre il grande caporedattore Daniele Ponchiroli, stimatissimo da Gianfranco Contini, insegnava a trattare i testi e le bozze; mentre Ernesto Ferrero istruiva i suoi sull'arte di scrivere una quarta di copertina; mentre Giulio Bollati trasmetteva il dono dell'armonia delle collane ma anche della scelta delle copertine; per non dire di Italo Calvino e Giulio Einaudi, che «era molto intelligente e dalle posizioni divergenti degli interlocutori (delle riunioni del mercoledì) coglieva la sostanza del libro». Insomma, l'egemonia era anche trasmissione di saperi tecnici perché tutti imparassero al meglio il mestiere. Sarebbe ingenuo pensare che tutto ciò sia superato, oggi, dalla tecnologia e dalla flessibilità del precariato (dove se hai la fortuna di lavorare non sei parte integrante dell'azienda, ma una meteora che va e viene: l'editoria è piena di redattori-meteora). Senza la disponibilità (quotidiana) dei maestri, senza l'ascolto e l'ammirazione (quotidiana) dei giovani per i «vecchi» non c'è digitale che tenga. Il sospetto è che lo stesso discorso si possa estendere all'infinito a tanti altri settori non solo culturali della società. E se questa è nostalgia del tempo che fu, benvenga.