Recensioni / L'agorà di pietra disegnata da Peter Eisenman è oltre il confine

L'agorà di pietra disegnata da Peter Eisenman è oltre il confine. Venendo dall'est, bisogna fare un breve tragitto. Percorrere Unter den Linden, attraversare la Porta di Brandenburgo. Sulla destra, lo sguardo incontra la cupola di cristallo del Reichstag. Sulla sinistra, uno spazio sprofondato in un grigio attonito, che sospende voci, traffico, movimenti. È come se, nella vita della metropoli, fosse stata immessa una parentesi, per separare dal contesto circostante. 19mila metri quadrati di terreno. Un immenso fazzoletto, non lontano da Postdamer Platz. È, questo, il set che ospita la modernissima riscrittura delle archeologie di Stonehenge proposta da Eisenman. Quasi una piazza involontaria, espressione di uno stile che sa essere contemporaneo e, insieme, antico. È il Memorial to the Murdered Jews of Europe, che sarà inaugurato oggi. Si resta senza parole, come quando si entra in un campo di concentramento. Un?emozione. Il punto di approdo di un viaggio durato più di quindici anni. È il 1988, quando la giornalista televisiva Lea Rosh parla del bisogno di innalzare, in Germania, un monumento in memoria delle vittime dell'Olocausto. Un invito che è accolto dall?allora capo del governo Helmut Kohl, il quale - è il 1992 - indice un concorso internazionale, cui partecipano 530 gruppi di architetti. Tre anni dopo la giuria segnala il progetto di Christine Jackob Marks. Una vasta tavola in granito, su cui sarebbero stati scolpiti i nomi delle vittime della Shoah. Kohl non condivide la scelta; e, nel 1997, promuove un nuovo concorso. Se lo aggiudicheranno Eisenman e Richard Serra. Quest'ultimo, però, poco prima dell?inizio dei lavori (nell?ottobre 2001), si ritirerà, non accettando la richiesta da parte del Parlamento di «aggiungere» un centro di documentazione sotterraneo. Dal 2002 a oggi, si sono succeduti dibattiti, polemiche. È stato grande lo scalpore quando si è saputo che si sarebbero adoperate vernici anti-graffiti della società Degussa, la quale, durante il Terzo Reich, aveva prodotto, sotto altro nome, il veleno Zyklon B, utilizzato nelle camere a gas. Ostilità ideologiche sono giunte da ogni fronte: dai neonazisti e dalle vittime del nazionalsocialismo. Ora, ci troviamo dinanzi a uno struggente cimitero, che non ha nulla in comune con i memoriali eretti in ricordo del genocidio degli ebrei. A differenza del Vad Vashem di Gerusalemme, del United States Holocaust Museum di Washington o del Memorial de la Shoah di Parigi, non ha niente di museale. E non ha neppure la povertà delle lapidi poste sugli edifici un tempo abitati da note personalità ebraiche. Eisenman non ha adottato una «prosa» esplicita. Non ha documentato la tragedia. Ha rotto con la tradizione commemorativa tedesca, ricorrendo a una scrittura indiretta, poetica, astratta. Non vi è nulla di esplicito. Non vi sono nomi, dediche, stelle di David. Mancano i riferimenti storici. I simboli sono un testo segreto. Un'opera anti-mimetica, priva di ogni carica decorativa, che ha la stessa imponenza dei menhir araici e dei «macigni» minimalisti di Serra. Un?«architettura senza patria» (per riprendere un giudizio di Tafuri sull?opera di Eisenman), che sta al di sopra del tempo e dello spazio. Un?invenzione metafisica, essenziale, che evoca figure, icone, immagini. Un arabesco di geometrie contrastanti, legate da cambi di ritmo, da variazioni sul tema.
Una rigida griglia, composta da 2751 stele di cemento armato, larghe 0,95 metri e lunghe 2,375, alte da pochi centimetri a 4 metri. La distanza tra i pilastri è perfettamente calcolata (95 centimetri). Le altezze delle colonne non sono casuali, ma risultano dall?intersezione tra i vuoti della griglia e le «linee guida» della città. Un tappeto pietroso, con scansioni matematiche. Una cornice esatta, cinta da edifici diseguali. All?interno di questi argini, si muove una danza scandita da armonia e da disarmonia. Ordine e sicurezza sono trasgrediti, tra divergenze e salti, tra varchi e spostamenti. La geometria viene affermata e, immediatamente, negata. La simmetria è esibita, per essere, poi, sgretolata. Le stele sono poste le une accanto alle altre, come i pezzi di un enorme lego. Eppure, sono unite solo da differenze. Alcune, inclinate di qualche grado, determinano una dissonanza percettiva, che allude alla follia nazista. Un palinsesto di rovine iscritte dentro una misura aurea. Un intreccio di corridoi, cui si può accedere da ogni lato, senza ingressi privilegiati. Circondato da quattro strade, il monumento «chiede» di essere vissuto. In esso, ci si deve perdere, come in un dedalo senza vie di uscita. Si entra, ed è un prodigio. Un senso di vuoto, di solitudine, di abbandono. È come sprofondare nell?oscurità del male. Un campo scosceso, con artificiali dune squadrate, simili alle onde di un mare fermo. Una narrazione architettonica sincopata, tra immobilità e dinamismo, tra costruzione e decostruzione. Equilibri rotti da contrasti interni, un po' come accade nel cimitero ebraico di Praga. Un flusso di forme incessantemente bloccato, tra frammenti, pensati come simulacri di un?unità smarrita. Una fitta tessitura di spigoli e di tagli, che rivela profonde assonanze con lo stile «anti-euclideo» tipico degli architetti di origine ebraica (da Appelbaum a Botta, da Bruder a Gehry, da Hecker a Libeskind), il cui lavoro è presentato, in questi giorni, in una interessante mostra, Bauen!, allo Jüdisches Museum di Berlino. Tra spigoli e diagonali, linee e interstizi, Eisenman trasforma l'architettura in un linguaggio che ha un?«altra» funzionalità. L?ars aedificatoria si fa installazione d?ambiente, opera da attraversare, spazio che si offre all'abitare, traccia che suggerisce modi diversi per «curare» i luoghi. In fondo, il «Memorial» è una casa dilatata, sulle cui pareti si sono sedimentate schegge di vita. Un tempio che trasmette le voci di una memoria viva nel presente, al di là di nostalgie, tra spostamenti, derive, pieghe. Un altare a cielo aperto, che accoglie in sé le macerie delle catastrofi della storia recente. Quelle catastrofi che sono indagate, con intelligenza, da Marco Belpoliti nel suo ultimo libro, Crolli (Einaudi, pp.142, euro 7), nel quale, sulle orme dei passages di Benjamin, per dettagli e particolari, si traccia una cartografia del nostro tempo estremo. Un itinerario rabdomantico, che si apre e si chiude nella stessa città, Berlino. Metropoli-labirinto, che «vive nel futuro passato», collocata in una modernità incompiuta, in un presente inesistente, tra un avvenire ancora difficile da intuire e una storia oramai distante, tra la voglia di distruggere l?esistente e il gusto per il revival. Dissonanze che richiamano la struggente installazione di Hans Hacke, alla Biennale di Venezia del 1993: una distesa di lastre di marmo grigio spezzate. E appaiono contigue alle destrutturazioni dello Jüdisches Museum progettato da Libeskind. Un bunker bucato da ferite e da vuoti. Un edificio a zig zag, inaccessibile dall?esterno, violento, duro, inabitabile, reinterpretazione della stella di David.
Il senso delle macerie si ritrova anche nel monumento di Eisenman, il quale, a differenza di Libeskind, non ha adottato soluzioni stilistiche criptiche. Ha proposto una nuova e ardita ipotesi di classicità, che sembra muovere dalla lezione di Terragni, cui l?architetto statunitense ha dedicato una importante monografia, recentemente edita in Italia (Giuseppe Terragni: trasformazioni scomposizioni critiche, Quodlibet, pp.304, euro 70). Uno studio che è, innanzitutto, un?autobiografia critica. Richiamandosi all?impenetrabile ermetismo del suo «maestro», Eisenman, con il «Memorial», spoglia le forme di ogni peso denotativo. Elabora una sintassi analitica, sfiorata da equilibri e disequilibri, tra rigore strutturale e collisioni plastiche. Dimensioni che si incontrano in una prospettiva intimamente concettuale.
«Il compito per un'architettura concettuale - scrive Eisenman - dovrebbe essere non tanto quello di trovare un sistema segnico o un meccanismo di codificazione, dove ciascuna forma in un contesto particolare assume un significato concordato, ma piuttosto appare più ragionevole investigare la natura di quelli che sono stati chiamati universali formali e che sono inerenti ad ogni forma o costrutto formale».