Un libro davvero particolare (Dino Baldi, Marina Ballo Charmet, Oracoli,
santuari e altri prodigi. Sopralluoghi in Grecia, Humboldt
Books/Quodlibet), sia per il testo che per le immagini, e naturalmente
per il loro rapporto, visto che i due autori, Dino Baldi per il testo e
Marina Ballo Charmet per le fotografie, hanno fatto sì il viaggio
insieme, ma la fotografa non si è data pena di accompagnare il testo e
si è ritagliata uno spazio a sé. Due lavori autonomi dunque, quello di
Baldi e di Ballo Charmet, anche se legati da una sicura sintonia.
Per il testo richiamiamo solo questa dichiarazione d’apertura perché ha a
che fare con l’immagine: "Non credo serva a niente, oggi, andare in
Grecia con gli occhi del vigoroso esploratore dell’Ottocento nutrito di
buone letture, o dello stanco profugo del Novecento in cerca di una via
di fuga dall’orrore. Sono tutte immagini che, decantate e addomesticate,
sono scese sulla rètina del viaggiatore moderno a formare un velo opaco
che rende ogni cosa immobile e uguale a sé stessa, e tutta la Grecia
una lezione al mondo. Preferirei invece che questa, pur con tutti i suoi
limiti (e i miei limiti), fosse un’occasione per fare esperienza
diretta della fine delle cose”. Certo l’“esperienza diretta” è una
grande scommessa, forse impossibile, ma si capisce che cosa ci si può
aspettare alla lettura: una magnifica distesa di erudizione con belle
descrizioni e picchi di riflessione che richiamano all’oggi, all’ora
dell’“esperienza diretta”.
Quanto alle immagini di Ballo Charmet, riprendono le rovine dei luoghi
sacri, santuari soprattutto, come stabilito dal titolo del libro. La
prima però ritrae piuttosto un gruppo di alberi, con la loro magnifica
ombra, che stanno davanti alle rovine, rovesciando il rapporto solito.
Forse ci vuole suggerire che è dai tronchi degli alberi che nasce l’idea
della colonna, dal loro riparo l’idea di architettura e di luogo sacro,
e dall’ombra sia il mistero dell’oracolo che il prodigio della
fotografia.
La seconda immagine poi è una delle cinque o sei senza rovine: è la
fonte, l’origine, l’acqua che si fa strada. Quindi scorrono le immagine
delle rovine, perlopiù fotografate con quello sguardo dal basso o
“periferico” come Ballo Charmet ci ha abituato a riconoscere come il suo
marchio d’artista. Chi fotograferebbe tante pietre in questo modo così
attento ai dettagli, alle disposizioni, in cui il caso conta almeno
altrettanto della volontà umana di ordine? Chi fotograferebbe lo stretto
di Corinto in quel modo che lo lascia intravedere solo minimamente tra
gli alberi abbarbicati alla roccia?
Le rovine, naturalmente, significano la memoria e anche il resto, il
sedimento, la stratificazione, e il rimosso anche, in senso
psicanalitico. In fondo lo stesso Freud ha usato la metafora
dell’archeologia e dello scavo per l’inconscio e l’analisi. Ma l’autrice
aggiunge a introduzione delle sue immagini: “ho cercato una relazione
empatica con la terra, il resto, con una visione preconscia, non
razionale, non di controllo, cercando di fare in modo che il luogo si
presenti da sé”. Non documentazione dunque, né veduta, paesaggio. Ma che
cosa significa una “visione preconscia”, qui? Empatia e lasciare che le
cose si presentino da sé, specifica Ballo Charmet.
Da un lato, l’abbiamo detto, è questa attenzione fluttuante resa dallo
sguardo che si lascia catturare da ciò che ha intorno, se ne sente come
guardato a sua volta, e lo scruta. Dall’altro ci viene da cercarlo anche
a livello tematico dentro le immagini, dove l’incontro tra sguardo e
figura si compie e diventa senso più compiuto, metafora di ciò che
accade e di ciò che vi si vede, e del medium, anche, cioè qui della
fotografia.
Allora ci siamo interrogati sulla presenza, nella stragrande maggioranza
delle immagini in realtà assenza – ma appunto! –, umana: dove sono le
persone? Certo, prima di tutto Ballo Charmet ci vuole probabilmente dire
che l’incontro con l’oracolo, così come con l’immagine, avviene in
solitaria, a tu per tu; che l’oracolo, e l’immagine, arrivano ammantato
di questo silenzio singolare che solo i luoghi archeologici sembrano
possedere e trasmettere. (“Trasmettere” si dice anche del silenzio? John
Cage docet.) Poi qualche presenza umana compare. La prima, ci si
scuserà l’azzardo, non di una vera presenza umana si tratta, ma,
significativamente, di una statua che la raffigura. Ebbene, questa
statua è senza testa, acefala, come a indicare quell’assenza di
controllo razionale a cui la fotografa si è richiamata e sottoposta e ci
invita a fare a nostra volta.
La seconda è nel luogo più architettonico di quelli visitati, il teatro
di Epidauro, soggetto di un magnifico gruppo di foto che accentuano tale
aspetto architettonico, fatto di geometria, di percorsi rettilinei che
segnano la via, la direzione, quasi il defluvio. Che cosa scorre infatti
lungo questi passaggi? Il silenzio, e la voce. Il teatro di Epidauro è
infatti arcinoto per la sua strabiliante acustica – e del resto la
figura dell’anfiteatro è quella di un padiglione auricolare, di un
recipiente, di un invaso – che Ballo Charmet sottolinea non esitando a
riprendere, come qualsiasi turista, una persona proprio al centro dello
spazio scenico. Il tema è dunque il rapporto tra il dire e l’ascolto, le
vie che esso percorre, che dal centro e dal profondo (l’inquadratura è
dall’alto) si spande e si fa sentire sui bordi, sulle periferie, sui
margini.
Le vie tracciate sono in questo senso delle soglie, delle linee di
separazione e al tempo stesso di unione tra due spazi, due stati, due
mondi. Così le soglie sono il soggetto delle fotografie seguenti: tra
piana e monti, tra terra e mare – sottolineata dalla disposizione dei
resti proprio a segnare lo sguardo – e anche tra rovine e presente,
nelle immagini di Eleusi, dove appare per la prima volta sullo sfondo la
città moderna.
Infine le due ultime immagini: la penultima è un buco e nella sua
semplicità disarmante è qui la metafora di tutto quanto siamo andati
elencando, purché in questo modo, non genericamente (apriamo un’altra
parentesi, nel caso non lo avessimo espresso con chiarezza: ci vuole uno
sguardo come quello di Ballo Charmet per scattare una foto come questa,
delle foto come queste, non lo si dimentichi, non fosse che con quel
tocco di asimmetria e quel primo piano sfocato che ognuno di noi avrebbe
cercato di evitare): è la bocca dell’oracolo e l’orecchio del
richiedente. L’ultima foto ha di nuovo una presenza umana, due turiste
che percorrono una via tra le rovine, parallela al piano dell’immagine,
da cui fra un attimo usciranno, per entrare...