È stato un gran bel viaggio, quello in compagnia di Paolo Morelli lungo
il Sangro (“Racconto del fiume Sangro”, Quodlibet, 2013). Ha avuto
coraggio Paolo a farlo, e a farlo così, da solo, a piedi come ai tempi
delle assorte e scanzonate escursioni del “Vademecum per perdersi in
montagna” (nottetempo, 2003), con poco o niente, se non il quadernetto,
l’occhio attento, l’orecchio fino, seguendo ostinatamente questo piccolo
fiume di provincia, senza mai perderlo di vista, sempre in ascolto,
dormendo dove capita, raccogliendo in un sacchetto immondizie altrui,
infilandosi in canneti, approdando a isolotti, guardando sempre dal
basso le opere dell’uomo che via via lo modificano, ne stravolgono il
corso. Ha avuto coraggio, intendo, a raccontarlo senza le astuzie che
oggi conferiscono a ogni narrazione lo stesso sapore di un thriller,
anche se thriller non è. Qui, nel “Racconto del fiume Sangro”, c’è
altro, per fortuna: c’è la sorprendente e avvincente costruzione della
personalità di un fiume (una personalità ricca, complessa, verrebbe da
dire, imprevedibile, fatta di forza e insieme di adattabilità, di
irruenza e di accoglienza), c’è “l’intervista” a questo fiume, come a un
certo punto la definisce lo stesso autore, cioè l’ascolto scrupoloso
della voce del fiume e di ogni torrente che gli si fa incontro o
addosso, l’indefessa invenzione poetica (poetica, sì, e vedremo in che
senso).
Diamo qualche assaggio di questa indefessa invenzione, che trasforma
acqua e fiume (due personalità distinte, quasi due principi
complementari) in persone, in caratteri. Apro a caso il libro, sicuro di
trovare ovunque un esempio appropriato. Ecco, in una delle primissime
pagine: “Il borbottìo si attutisce tra l’argilla e il muschio, per
sentirlo bisogna mettersi in ginocchio e accostare l’orecchio,
profittando del vento quando cala e zittisce. Gli sbuffi d’acqua fanno
un suono come una risata trattenuta per educazione, che diventa lo
schiarirsi di voce di un bambino. Certe sillabe appena nate, solo vocali
in a o in o col riverbero di voci uguali delle altre sorgenti qui
vicino”. E più avanti: “… e lei l’acqua simula uno svenimento appena le
incontra (le piante, nrd), nemmeno si direbbe che le evita, gli casca
addosso con marpioneria, con sagacia, certe grosse foglie fanno un
rumore come quando si fa suonare un filo d’erba in bocca”. L’ascolto
attento del fiume porta a distillare, a distinguere le singole note:
quando nel Sangro si immette un torrente e dall’incontro dei due corsi
“si forma un muro… alto pochi centimetri”, “il suono sul muro è un tipo
di fru fru, preceduto da un borborigmo e seguito da un rumore di
scivolo”. Andiamo avanti: “Così come non c’è niente di lineare nel corso
di un fiume, così per la sua voce che è sempre e comunque fatta a
sbalzi e cesure, accelerazioni magari, ma mai e poi mai sovratono,
questo è tanto ovvio che non vale la pena scriverlo, basta ascoltare. In
ogni caso se fosse un cantante il Sangro sarebbe un contralto poco
drammatico”. “Passo sotto un piccolo ponte e mi fermo, qui la varietà
delle voci è impressionante, un coro di folli, una banda di ubriachi
all’ultimo stadio, basta quel poco d’eco per accatastare i suoni della
sarabanda…”. E ancora: “Il tutto avviene sottotono e protetto
dall’acustica del folto, un bisbiglìo che somiglia a quello di chi ti dà
un consiglio all’orecchio, anzi molti consigli ci sono in giro, ognuno
per sé conservato nella riservatezza”. Ancora una, vi prego: “Difatti
poi stamattina la voce è rauca ma composta, come uno che ha sempre
faticato ma sempre ritrova la forza, come dicevano una volta di chi
lavora la terra che la forza gli torna nel sangue la notte”.
In queste, e in molte altre pagine, si scopre l’atteggiamento umile (e
dunque coraggiosamente in piena controtendenza, come si diceva
all’inizio) di chi non si impone, di chi è lì per imparare, di chi
esercita la pazienza, di chi va sempre, ostinatamente, a piedi (un
andare a piedi che è anche un po’ una categoria dello spirito) e se è
costretto a prendere un mezzo ci resta male. Sono pagine affabulatorie,
in cui la nettezza nel riportare una sensazione si coniuga con la
fantasia di una narrazione spontanea e improvvisata, che qui emerge da
appunti presi secondo l’estro e le impressioni del momento.
Di certo, in questo gioco continuo di sinestesie e di personificazioni
Morelli non è mai dannunziano, non dovrei nemmeno scriverlo, anzi il suo
racconto della natura si pone agli antipodi di ogni possibile
dannunzianesimo (e se parlo di dannunzianesimo è perché ancora oggi ci
si casca, se non si sta attenti, a raccontare la natura, a scervellarsi
su come rendere la “voce del fiume”). Il viaggio di Morelli è pure
lontanissimo da esperienze come quelle tracciate nel “Danubio” di
Magris, in cui si trattano soprattutto gli uomini, le città, la storia,
un fitto tessuto culturale, e in cui l’acqua, al limite, potrebbe anche
non esserci. Non siamo nemmeno dalle parti del Po raccontato tante
volte, da Mario Soldati (che era più interessato a tradizioni, cibi,
vini) in poi, fino, che so, a “Il grande fiume Po” di Guido Conti, tutto
memoria storica e letteraria; forse qualche affinità possiamo trovarla
con Paolo Rumiz, che però sul Po viaggia in barca (nel recente film “Il
risveglio del fiume segreto” con la regia di Alessandro Scillitani, e
nel recentissimo libro “Morimondo”, Feltrinelli). Certo, a parlare del
Po (o, che so, del Tevere, del Piave, di quei fiumi lì), il rischio dei
toni epici, dell’enfasi lirica, è sempre presente, mentre il Sangro non
li evoca proprio questi toni, appunto dannunziani o magari conradiani,
anzi ne rifugge. Avvertiamo le maggiori sintonie, per comune sensibilità
degli autori, per programmato desiderio di non programmare un percorso
ma di scoprirlo passo dopo passo perdendocisi (a piedi!), con il Gianni
Celati di “Verso la foce”, uno scrittore con cui in passato Morelli ha
condiviso esperienze letterarie (un altro sodale di quelle esperienze,
Ermanno Cavazzoni, è tra i curatori della collana “Quodlibet Compagnia
Extra” in cui è inserito questo “Racconto del fiume Sangro”).
Ma questo gioco dei confronti che abbiamo tentato lascia il tempo che
trova perché il Sangro (verrebbe da dire “per fortuna”) non è proprio il
Po, subisce i consueti interventi dell’uomo e incontra piccoli comuni
di montagna e di costa privi di appeal letterario, e c’è poco da dire
sul suo passato, cioè sul passato degli uomini che hanno tirato su case
lungo il suo percorso. In fondo parliamo di un corso d’acqua appenninico
come tanti; è l’approccio di Paolo Morelli a renderlo significativo e
unico. Bisogna insomma saperseli scegliere, i propri fiumi, andare in
cerca di quello che si sente più affine, origliare la “voce” del meno
frequentato, del meno ascoltato.