Tutti noi abbiamo nella nostra testa, senza saperlo, un Ufficio
Proiezioni Luminose. Sono le immagini che restano impigliate nella rete
della nostra memoria e s'alimentano di almeno due facoltà della nostra
mente: immaginazione e fantasia. Due ruote di bicicletta sovrapposte,
una nuvola, la foto di Bush jr. che scansa una scarpa lanciata, un masso
erratico, un fotografo sconosciuto, un ritaglio di giornale, una
immagine di Lartigue: Matteo Terzaghi, l'autore, lavora su immagini
occasionali, sino a produrre qualcosa di permanente, d'esemplare,
utilizzando una lingua essenziale, eppure suadente. Il suo libro
s'intitola "Ufficio proiezioni luminose" (Quodlibet, pp.96, euro 13,50)
ed è composto di brevi prose, secondo uno stile che risale a Robert
Walser e a Walter Benjamin, genere in bilico tra letteratura e
riflessione filosofica, che Terzaghi reinterpreta con bravura e pudore.
Sono prose che raccontano di fatti minimi, incontri, visioni, memorie,
un esempio perfetto di scrittura che, senza mai strafare, muove verso la
filosofia, e tuttavia non abbandona mai la sponda della letteratura. In
ogni tassello narrativo c'è imprigionato un piccolo mistero, un pezzo
di luce oscura, che neppure la tersa prosa di Terzaghi riesce, o vuole,
illuminare, e quindi galleggia nella memoria del lettore a pagina
chiusa, tanto da indurlo a guardare in modo differente le cose intorno,
il mistero che ci circonda fatto di minuzie incomprensibili. Terzaghi
abita in Canton Ticino, traduce ed è redattore da Casagrande, appartiene
perciò alla letteratura della Svizzera italiana che ha dato in questi
ultimi decenni un contributo importante alla nostra cultura, elaborando
una propria strategia narrativa e poetica solo in apparenza eccentrica.