Recensioni / Passeggiata zen lungo il Sangro

Per avere subito una idea di Racconto del fiume Sangro di Paolo Morelli immaginate Tommaso Landolfi che scrive Walden di Thoreau. Da un lato Morelli è iperletterario, nevroticamente ossessionato dalle parole, cavilloso nel descrivere, di sintassi estenuata, dall'altro ci racconta il suo incontro rigenerativo con la wilderness, con un mondo altro, primigenio, pre-culturale. Il libro è il diario di una discesa a piedi solitaria lungo un piccolo fiume abruzzese, il Sangro, dal Parco Nazionale fino all'Adriatico, ed è al tempo stesso personal essay, esercizio meditativo, manuale di "pratica filosofica"(alla Epitteto), avventura conoscitiva, divagazione intellettuale («divagare è il modo operativo dominante del cervello»), autofiction di un io molto decentrato. In tempi di New Age e orientalismi fasulli l'autore ci suggerisce una concreta tecnica di meditazione: contemplare e descrivere l'acqua di un fiume, che sempre discende, aggira le rocce più dure (utilizzandole per darsi una spinta), non attacca oggetti non impregnabili, si adatta continuamente («la sua forza è un misto di costante e flessibile»). Evitare di immaginare, guardare in basso, munito di taccuini bagnati e ciancicati. Riprodurre nella lingua il suono degli sbuffi d'acqua, quando impatta con lo «scaglioso della corteccia» di un albero. Così dall'acqua apprende - taoisticamente - un'arte di vivere. Il Sangro viene antropomorfizzato fino a diventare il protagonista del racconto: torrentizio o compassato, ha
una voce personalissima, mai sovratono (sommessa o fragorosa), a volte cicaleggia e altre volte tace, dispiegato e a petto in fuori, sospiroso o è talmente adagiato da permettersi di giocare (fa coincidere i «casi suoi» con «quello che succede», suggerisce che col passare degli anni bisogna farsi piacere la rinuncia a un bel po' di cose: in ciò fedele adepto dello stoicismo), può essere amichevole e anche deciso come un padre espansivo. È pieno di isolotti perché gli piace abbracciarli. E dopo tante prove che ha affrontatoappare «un bel po' autorevole».
Morelli si imbatte in daini, lupi, orsi, cani randagi minacciosi, di fronte ai quali deve inventarsi qualche astuzia di sopravvivenza (resta immobile), ma è solo quando incontra i pochi esseri umani sparsi sulla montagna che avvertiamo in lui apprensione e diffidenza. Se si allontana troppo dal corso del fiume, come per mangiare in un paese, si sente in colpa. Attraverso il diario scorre un altro libro parallelo, fatto di aforismi acuminati sull'esistenza e sul potere, sulla contemporaneità e sull'etica. Ne vorrei qui dare una selezione ampia: «l'ostacolo è che noi da questa
parte di mondo abbiamo un'idea fissa della libertà che somiglia molto allo sfrenamento, mentre quel po' di libertà per chi è incarnato sta nelle regole... un fiume ti insegna l'umiltà, ti insegna che conta solo quello che è utile»; «se la vita esiste dove il dare eccede il prendere allora a questo punto bisognerebbe fare parecchie cose a rimeitterci»; «forse il problema del mondo attuale è che gli scienziati possono smentire i poeti, il contrario invece non è considerato valido»; «forse i pensieri veri sono quelli cupi, come le medicine vere devono essere amare»; «un paese inte-
ro, l'Italia intera, diviso a metà tra aspiranti sbirri e aspiranti criminali»; «c'è una cosa che non cambia mai ed è la dose di fatica sempre uguale fin dall'inizio, omeostatica... se non giri nemmeno più la manopola del finestrino ti diventa faticosa un'altra cosa, magari sonrridere»; «anche le fabbriche che fanno cose che durano sono costrette a chiudere». Elogia parsimonia e virtù dimenticate però la teoria della decrescita gli evoca una cura per diventare calvi.
A volte mi sembra di trovare più pensiero "filosofico", almeno nell'accezione antica del termine (dove coincide con uno stile di vita) in questo libro così atipico, inciassificabile, che in tanti verbosi saggi di filosofi professionali. Le parole che usa gli sembrano ombre: pensa di acciaccare le cose con le parole giuste ma quelle volano via «e quello che sfugge resta più o meno l'essenziale».
E se l'autore è in balia dai suoi umori depressivi sempre lo soccorre il fiume, «la continuità tra notte e giorno». E quando cede a un sentimento apocalittico ecco che ogni mattina nel bosco si ritrova a osservare con stupore primordiale «l'enorme officina del mondo» che si rimette in moto. Il fiume a un certo punto del suo corso sembra immobile, quasi sognante, poi comincia a frusciare: come iniziano le cose, anche nelle vicende umane, è sempre misterioso. Il che dovrebbe saggiamente limitare qualsiasi nostra velleità iperattivistica, qualsiasi illusione di controllo sulla realtà. Mi soffermo infine su una epifania raccontata in queste pagine: un lombrico che si muove a scosse nel fango, trasparente tanto che si vede il meccanismo: «il nulla cioè, ma il motore sembra posteriore perché comunque bisogna andare da qualche parte». Ecco, l'autore ha imparato ad attraversare il nulla. Ma non rinuncia perciò ad andare avanti, anche senza sapere bene perché.